tag:blogger.com,1999:blog-10163842548273874882024-03-12T16:22:38.937-07:00Corriere ImmigrazioneL.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comBlogger367125tag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-69448055548071573982012-08-20T04:11:00.001-07:002012-08-20T04:11:26.715-07:00Corriere Immigrazione si trasferiscePotete trovarci al nuovo dominio <a href="http://www.corriereimmigrazione.it/">www.corriereimmigrazione.it</a>Corriere Immigrazionehttp://www.blogger.com/profile/08892560651295778113noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-63684362413448777992011-03-27T07:50:00.000-07:002012-08-21T08:59:14.635-07:00“Tanto rumore per 15 mila tunisini, noi abbiamo accolto 163 mila profughi”.<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-bHoTQFhZUGE/TY9OWdli48I/AAAAAAAABfg/IGHM3WgrYh0/s1600/3412324458-ras-jedir-confine-libia-tunisia-vita-in-campo-profughi.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="150" src="http://2.bp.blogspot.com/-bHoTQFhZUGE/TY9OWdli48I/AAAAAAAABfg/IGHM3WgrYh0/s200/3412324458-ras-jedir-confine-libia-tunisia-vita-in-campo-profughi.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>L'ex ministro tunisino Bedoui: “Non una catastrofe e nemmeno una migrazione strutturale, ma un fenomeno eccezionale che come tale va considerato. Siamo preoccupati per il razzismo che rischia di diffondersi in Italia”</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Raffaella Cosentino</b>, Redattore Sociale</div><div style="text-align: justify;"><br />
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<div style="text-align: justify;"><b>TUNISI</b>.Mentre i ministri dell’Interno Roberto Maroni e degli Esteri Franco Frattini concordano con i loro omologhi e con il premier Beji Caid Essersi una linea di contrasto all’immigrazione verso Lampedusa, dalla società civile tunisina arriva un appello all’Italia e all’Unione europea a tenere in considerazione ‘l’eccezionalità’ della crisi nordafricana.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">A lanciarlo è Abdeljalil Bedoui, presidente del Forum tunisino dei diritti economici e sociali. “La Tunisia attraversa un momento delicato, è in corso una rivoluzione e confiniamo con la Libia – dice Bedoui – contando esclusivamente sulle nostre forze abbiamo salvato e accolto 163 mila profughi in fuga dalla guerra, è stata straordinaria e ammirevole la solidarietà spontanea dei tunisini verso chi ha lasciato la Libia e quindi non si capisce questo comportamento dell’Unione europea, di cui per giunta siamo un paese partner, e dell’Italia per soli 15 mila tunisini arrivati a Lampedusa. Non è una catastrofe e nemmeno una migrazione strutturale, è un fenomeno eccezionale e come tale va considerato”.</div><br />
<div style="text-align: justify;">Abdeljalil Bedoui è stato a lungo membro della Lega tunisina per i diritti dell’uomo ed è uno dei ministri che si è ritirato dal governo d’unità nazionale formatosi alla caduta di Ben Alì per protesta contro la presenza di uomini del vecchio regime. “Siamo molto inquieti e preoccupati per il sentimento razzista che rischia di diffondersi tra la popolazione italiana se si danno informazioni razziste e false – afferma – perché i nostri paesi hanno da sempre un buon rapporto storico di amicizia”. Secondo Bedoui “ è un dovere nazionale controllare le coste ma non si può contare esclusivamente sulle autorità tunisine in questo momento, l’Italia deve considerare la specificità della fase attuale che attraversa la Tunisia”.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Il presidente del Forum dei diritti economici e sociali ha comunicato al premier Beji Caid Essersi la posizione della società civile tunisina, prima dell’incontro con i ministri Maroni e Frattini. “Abbiamo chiesto alle nostre autorità di non accettare il ‘dictat’ delle autorità italiane e di essere fermi – spiega – di non accettare un rimpatrio massivo e un ritorno collettivo dei migranti e di sospendere l’accordo sull’immigrazione con l’Italia perché è stato firmato sotto la dittatura di Ben Ali da autorità fasciste che non tenevano conto del rispetto dei diritti umani”. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Bedoui ha condotto una ricerca congiunta con il Consiglio italiano per i rifugiati chiamata ‘missione Tunisia – Italia’ per studiare le cause del flusso migratorio verso Lampedusa e suggerire gli interventi più adeguati. “Il profilo dei giovani che partono è sempre lo stesso – racconta – vengono dalla zona sud del paese, lavoravano nel turismo e nell’indotto collegato, nell’artigianato e nel commercio transfrontaliero con la Libia. Ora queste attività, come anche i trasporti e la ristorazione, si sono fortemente ridotte e questi giovani si sono trovati in enorme difficoltà, quindi hanno attraversato il mare alla ricerca di lavoro. Sono istruiti, solitamente diplomati e hanno già esperienze lavorative qualificate. La Tunisia non è contenta di queste partenze perché influenzano negativamente il nostro sistema di sviluppo”. Durante la missione, Bedoui ha visitato i centri d’accoglienza in Sicilia e ha parlato con la prefettura di Palermo e con il Viminale. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">“Sappiamo che a Lampedusa la popolazione è accogliente e non è razzista, ma i tunisini devono essere trasferiti in centri d’accoglienza nel rispetto dei loro diritti sanciti dalle convenzioni internazionali – continua il presidente del Forum tunisino dei diritti economici e sociali – chiediamo al ministro dell’Interno Maroni di facilitare l’arrivo in Italia di un gruppo che rappresenta la nostra società civile per aiutare e dare assistenza e informazioni ai tunisini che sbarcano sulle coste italiane”. </div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-14141482155683094072011-03-25T23:00:00.000-07:002012-08-21T08:59:14.633-07:00Farid Adli risponde a Karim Metref: No, caro Karim, le cose non stanno così!<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh6.googleusercontent.com/-M6wddXxPTWM/TYx7hR7Y8SI/AAAAAAAABfY/2e3KQ2_w8sI/s1600/rivolta-libia-610x408.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="133" src="https://lh6.googleusercontent.com/-M6wddXxPTWM/TYx7hR7Y8SI/AAAAAAAABfY/2e3KQ2_w8sI/s200/rivolta-libia-610x408.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;">Farid Adli risponde <a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/2011/03/lettera-farid-adli.html">alla lettera di Karim Metref (per leggerla clicca qui)</a></div><div style="text-align: justify;">di <b>Farid Adli</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>LA LETTERA</b>. Caro Karim, ti ringrazio per il messaggio e la lettera. Vorrei rettificare alcune questioni preliminari. Il mio articolo al Manifesto è stato pubblicato il 5 Marzo e non il 21. Il particolare non è indifferente, perché c'è di mezzo il 17 Marzo (risoluzione ONU n. 1973).</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Inoltre, sul numero del 24 Marzo è uscito il secondo articolo sulla mia posizione in merito alla guerra in corso.</div><div style="text-align: justify;">Con tutta la stima che ho per te e per il lavoro che svolgi, ti dico sinceramente che non sono d'accordo con te. Tu attacchi la Hannoun, che si batte coraggiosamente in Algeria da sinistra, in condizioni di disperazione generale. Da queste nostre divisioni, nel campo dei democratici, il potere sanguinario trae linfa. Dobbiamo essere uniti nelle differenze, per abbattere il drago.</div><div style="text-align: justify;">Senza infingimenti, ti dico che sono assolutamente d'accordo con i bombardamenti sulle truppe di Gheddafi che stavano marciando su Bengasi. Se non ci fosse stato quel bombardamento, alle 17.45 di Sabato scorso, deciso da Sarkozy, adesso saremmo qui a piangere migliaia di morti nella mia città. Io non sono nichilista. E non sono neanche illuso dall'abbaglio delle guerre umanitarie. L'ho scritto sul Manifesto: non ci sono guerre umanitarie. Questa guerra, le potenze occidentali capitalistiche l'hanno fatta per il petrolio. Lo sappiamo e lo abbiamo messo nel conto. Il petrolio era nelle loro mani anche con Gheddafi.</div><div style="text-align: justify;">Conosco la tua rettitudine e correttezza, ma questo "fare le pulci" all'opposizione libica è di un'ingenerosità disarmante. Tu puoi anche stare a guardare e aspettare per sapere dove e come finirà; io no. Io ho la mano sulle braci ardenti. E devo prendere posizione, scegliere un campo. Oggi, in Libia il nemico, che si deve neutralizzare cacciandolo dal potere, è Gheddafi, la sua famgilia e le sue brigate di assassini. Tutti i libici che si schierano per questo obiettivo vanno uniti, dai monarchici ai socialisti, dai liberali agli islamici moderati. E questo si sta facendo. Tu stai accusando, di essere agenti di Londra, Parigi o Washington, uomini che non conosci, ma che hanno passato una vita di stenti pur di non sottostare alla tirannia di un tiranno sanguinario. Uno di questi, plurilaureato, ha fatto il benzinaio in una cittaidna statunitense di provincia, pur di sottrarsi alle grinfie del dittatore. Quelle parole, li devi assolutamente ritirare. Con queste insinuazioni, anch'io e anche tu potremmo essere accusati di tutte le nefadezze della terra. Bisogna parlare delle cose che si sanno e non spargere letame su chi ha lottato per il cambiamento del suo paese, in condizioni difficilissime. Sfidare Gheddafi non è una cosa facile come bere un bicchiere d'acqua, caro Karim. E chi lo ha fatto, merita rispetto non il fango! La rivoluzione del 17 Febbraio è stata condotta dai giovani che hanno vissuto lì sotto l'oppressione, la scintilla l'hanno data i familiari delle vittime di Abu Selim (il carcere vicino a Tripoli, dove il 26 Giugno 2011, i sicari di Gjheddafi hanno uscciso col mitra 1270 detenuti politici a sangue freddo nelle loro celle). Ed è la guida di questa giovane rivoluzione, il CNTL, che ha chiesto la No Fly Zone. Non sono stati gli occidentali a decidere la guerra per "esportare la Democrazia", come in Iraq. E' una differenza fondamentale. Non vederla, questa differenza, è un esercizio di retorica che non cambierà il corso degli eventi.</div><div style="text-align: justify;">Vedi, Karim, io parteggio per il mio popolo, né per Sarkozy né per Berlusconi. Metto al primo posto il cambiamento nel mio paese. Nulla è predestinato. Tutto si costruisce con le forze in campo. Gli intenti di chi sta guidando questo processo sono nobili e le persone li conosco personalmente. Mi fido. Ma se mi chiedi, come andrà una volta disarcionato Gheddafi, ti dico che non ho certezze. Tutto è possibile ed anche in questo caso è messo nel conto. Vedi, Karim, io ho studiato molto la resistenza italiana contro l'occupazione nazi-fascista. Non so se conosci un certo Edgardo Sogni, padre del politico italiano attuale. Anche quel Edgardo Sogni ha fatto la resistenza in Italia. E' stato partigiano monarchico, anticomunista dichiarato (aveva partecipato alla guerra di Spagna dalla parte sbagliata), vicino ai liberali e li ha rappresentati nel CLNAI; è stato eletto nella Costituente e poi decorato con la Medaglia d'oro al valore militare. Vedi, i comunisti, i socialisti, i cattolici e gli azionisti italiani che avevano condotto la lotta partigiana contro Mussolini e l'occupazione nazi-fascista non hanno lottato uno contro l'altro, ma insieme e hanno vinto. Questo è un grande insegnamento. E nessun pentimento c'è stato nell'animo di comunisti e socialisti, anche quando poi il potere è caduto nelle mani della DC. Sogni è stato acusato di aver progettato addirittura un colpo di Stato contro la repubblica democratica. Questo l'insegnamento: Unità per vincere contro il tiranno.</div><div style="text-align: justify;">La rivoluzione non è un piatto servito su un vassoio d'argento. E' lotta quotidiana in mezzo a mille difficoltà. L'importante è avere una bussola. E in questo momento la bussola, che unisce, è la lotta contro il dittatore per cacciarlo. Le tue osservazioni sono un punto di vista legittimo, ma non salvano il mio popolo. Ed esprimo questo parere chiaramento e senza nascondermi, al costo di ricevere messaggi di certi imbecilli che mi hanno accusato di esser un agente dell'imperialismo.</div><div style="text-align: justify;">Anche questo è un prezzo che sono disposto a pagare. Ma come ben sai, da noi c'è un proverbio che dice: La carovana va, i cani abbaiono!</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Con stima e rispetto.</div><div style="text-align: justify;">Farid Adly</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><i>Per leggere la lettera di Karim Metref <a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/2011/03/lettera-farid-adli.html">(e l'altra di Farid Adli a cui Metref aveva risposto) clicca qui</a></i></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-77350375571894772672011-03-25T06:05:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.384-07:00Lettera a Farid Adli<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh3.googleusercontent.com/-JVs9aedeg88/TYtBUv8xOiI/AAAAAAAABfU/JnqKbOODbag/s1600/faridAdli.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" src="https://lh3.googleusercontent.com/-JVs9aedeg88/TYtBUv8xOiI/AAAAAAAABfU/JnqKbOODbag/s1600/faridAdli.jpg" /></a></div><div style="text-align: justify;">Risposta ad una lettera firmata da Farid Adli su <i>Il Manifesto </i>del 21-03-2011 con il titolo "Dalla Libia arriva un grido di libertà". Chi non l'ha letta la può trovare qui sotto la mia risposta</div><div style="text-align: justify;">di <b>Karim Metref</b>, con una lettera di <b>Farid Adli</b>, pubblicata su <i>Il Manifesto</i></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>LA RISPOSTA.</b> Caro fratello, ti scrivo innanzitutto per dirti che condivido fortemente il tuo dolore e la tua ansia per i tuoi cari, per il tuo popolo. </div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Lo condivido nel modo in cui, forse, solo chi ha vissuto momenti simili e conosce l'entità e l'intensità di quella angoscia e di quel dolore, può condividere. I nostri padri hanno combattuto per l'indipendenza e noi da quando siamo nati combattiamo per un minimo di vita dignitosa, un minimo di libertà. Qualche volta sono quasi sicuro di morire prima di vederla questa vita dignitosa, questa libertà. Ma siccome la speranza è l'ultima a morire, continuiamo a sperare se non per noi almeno per i nostri figli.</div><div style="text-align: justify;">La tua lettera al manifesto mi ha toccato profondamente. Ti ho riconosciuto e ho riconosciuto l'uomo onesto, coraggioso e nello stesso tempo rispettoso degli altri, quale sei. Condivido interamente le tue critiche ai “compagni” che continuano a dire che i nostri dittatori sono “anti-imperialisti”. Se ti può consolare, si è trovato anche qualche “compagno”, anzi un “campo” di “compagni anti imperialisti” per andare in Algeria alla “Festa della gioventù del 2001” e dichiarare che Bouteflika è un autentico rivoluzionario. Mentre i giovani insorti della Cabilia di quelli anni sono stati descritti come agenti dell'imperialismo.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Ora di Bouteflika, tutto si può dire tranne che è un anti-imperialista. Il nostro uomo è arrivato al potere spinto dall'esterno. Anche se era tra i golpisti del 1965 e ha esercitato come ministro degli esteri dal 1965 al 1979, nel 1999, quando è ritornato, la gente l'aveva completamente dimenticato. È solo grazie all'appoggio degli Stati Uniti, e l'accordo tacito delle altre potenze che è salito sulla poltrona. Aveva tra i suoi bagagli anche il candidato designato per il ministero dell'energia: Chakib Khellil, grande amico delle multinazionali del petrolio e della banca mondiale. Missione: consegnare le risorse energetiche del paese in mano alle multinazionali. Missione compiuta con grande rigore e destrezza.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Sì, è così. Molti nostri compagni italiani continuano a vedere in questi mostri dei rivoluzionari, ma forse è anche perché buona parte dei nostri compagni di là si sono fatti comprare generosamente e continuano a mandare messaggi distorti ai loro amici di quà. Pensa un po' a tutta l'area trotzkista che come riferimento in Algeria ha il PT di Louisa Hannoun, che tutti in Algeria chiamano ormai Louisa Qahnoun, perché da 10 anni non ha fatto altro che prostituirsi politicamente con Bouteflika e il suo regime. Oppure tutta quella area del femminismo italiano che continua a vedere in Khalida Messaoudi “Una donna in piedi”. Quando questa donna, in piedi, se lo è mai veramente stata oltre che sui media francesi e nell'immaginario occidentale, ormai non lo è più. La Khalida è la portavoce più fedele di questo governo che quando non opprime direttamente le donne, le abbandona indifese in preda ad una società maschilista che trova in loro un capro espiatorio per tutte le sue frustrazioni.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Capisco benissimo questo tuo stupore e questa tua rabbia nei confronti di chi afferma queste cose. Un'amica che ritornava, qualche anno fa, dalla Libia e davanti al mio stupore per la sua dichiarata ammirazione per il Colonnello, mi disse, con uno sguardo e un sorriso un po' malizioso: “ Ma sai... in fin dei conti gli arabi hanno sempre bisogno di una figura forte. No?”. Quel sorriso, quello sguardo un po' malizioso, un po' compiacente, l'ho visto anche sulle facce di alcuni amici francesi, qualche mese fa. Stavamo parlando di questa moda di figure bonapartiste che si sta diffondendo in America latina; un compagno del Partito dei Lavoratori iracheno disse: «Sapete anche a noi così a primo impatto ci sembrano simpatici. Peccato che è un film che abbiamo già visto e sappiamo come finisce». Ed a questo punto che venne il sorrisetto e lo sguardo un po' compiacente un po' malizioso: "in fondo in fondo voi arabi e anche i latino americani...".</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Capisco tutto questo e ne soffro quanto te. Ma non credo che oggi la questione più importante sia di quella minoranza di smarriti che continua a dichiarare che Gheddafi sia anti-imperialista. La questione è quella di quale futuro per la Libia, per la regione, per il mondo? Non condivido del tutto il tuo entusiasmo per questa opposizione. Sono convinto che ciò che dici è in parte vero e che non mancano donne e uomini sinceri in questa sollevazione di popolo. Ma la situazione è anche troppo torbida e si sono visti troppi voltagabbana improvvisi perché sia del tutto credibile. Io non firmo mai assegni in bianco. Soprattutto non a chi ha un mitra un mano. I nostri padri lo hanno fatto per i liberatori, o presunti tali, e oggi il risultato ce l'abbiamo sotto gli occhi, tutti quanti.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Ma se non firmo assegni in bianco a nessuno non vuol dire che non ammiro quello che stanno facendo i giovani nei nostri paesi. Questa generazione è stata capace di quello che la nostra non ha osato. E di questo bisogna essergli riconoscente. Ma per il resto preferisco aspettare di vederci meglio. Forse chi come te ha una visione più ravvicinata della situazione ci deve aiutare a separare il grano dal loglio. A capire quali forze compongono veramente questa coalizione e quali sono da sostenere, quali da tenere sott'occhio perché non troppo chiari, o sicuramente collusi con le forze estere che vogliono mettere mano sulla Libia...</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">L'altro punto che non ci hai chiarito. E questo è, secondo me, il più importante in questo momento, è la tua posizione rispetto all'intervento militare di questa “coalizione dei volenterosi”(rapaci – <i>ndr</i>). Non dico che tu sei <i>pro </i>ma non ti sei nemmeno schierato contro. E buona parte di questa opposizione di cui ci parli ha salutato questo intervento militare . Ma tu... Ci inviti in qualche modo a considerare questo intervento come un male necessario?</div><div style="text-align: justify;">Capisco che quando uno annega ha bisogno di aiuto. E bisogna dire che la rivolta libica stava annegando. Qualcosa per salvare le vite di centinaia di migliaia di civili doveva farsi. Ma tra il non fare nulla e la follia guerriera che si è impossessata delle forze alleate due ore dopo aver ottenuto la risoluzione dell'Onu, c'è un divario enorme.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">I paesi della Nato passano il loro tempo ad armare tiranni amici, che poi dichiarano nemici, per giocare a distruggere poi paesi interi. Per il controllo delle risorse, per poter piazzare le loro benedette basi militari, per spartirsi il business della ricostruzione, per dividerci sempre di più su base etnica e per riconfermare alla testa dei nostri paesi delle dirigenze corrotte quanto quelle che hanno abbattuto poco prima o di più se possibile...</div><div style="text-align: justify;">E noi passiamo il nostro tempo a considerare l'occidente colpevole di tutti i nostri mali e poi appena siamo in pericolo crediamo che potrebbe venirci in aiuto solo per la bellezza dei nostri occhi.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Caro Farid, io mi ricordo che tu non hai mai ingoiato la storia della guerra umanitaria in Iraq o in Afghanistan. Noi, oggi, dobbiamo accettare che Sarkozy, che sostiene in tutta l'Africa fior fiore di dittatori corrotti e violenti, e che poche ore prima della fuga di Benalì gli proponeva la sua Legione Straniera come rinforzo per reprimere la protesta dei giovani, sia stato preso da un raptus umanitario e sia impazzito per paura per la sorte dei civili della Cirenaica? È possibile cerdere che Cameron e Obama che chiudono gli occhi di fronte a tutti i massacri israeliani in Libano, a Gaza considerino oggi la salvezza dei bambini di Bengasi decisiva per il futuro della specie umana? È possibile che tutti quelli che guardano altrove mentre il Bahrein, l'Arabia Saudita stanno reprimendo duramente le richieste di democrazia nel golfo persico, siano così premurosi per l'avvento della democrazia in Libia?</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Io credo caro fratello che non si combatte il male con il male. Qualcosa andava fatto? Sicuramente! Ma le vie per farlo questo qualcosa erano tante. Non è stato esplorato un centesimo delle possibilità che si trovano tra il non fare nulla e il buttarsi nella mischia dando botte da orbi: la diplomazia, la trattativa, il dialogo, la pressione politica, l'interposizione, l'embargo mirato, l'istituzione di una nofly-nodrive zone, Il supporto aereo alle posizioni dei ribelli senza bombardamento sulle posizioni delle forze del regime, e soprattutto senza bombardare le città... e ce ne saranno altre decine di possibilità che non mi vengono in mente.</div><div style="text-align: justify;">Io credo, caro fratello, che chi ha le mani sporche del sangue di milioni di innocenti non può intervenire perché ha a cuore la vita di altri innocenti. Credo che noi siamo piccoli e contiamo poco sullo scacchiere, ma possiamo almeno non arrenderci alla logica del più forte e non scegliere tra i nostri oppressori.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Questo dilemma l'ho già vissuto in Algeria, quando dovevo scegliere tra i generali che mi opprimevano da sempre e gli integralisti dei GIA che volevano opprimermi ancora di più. Io non ho scelto né l'uno né l'altro. Molti “compagni” hanno scelto di rifugiarsi sotto l'ala protettrice dei generali. Io li capisco molto bene. Soprattutto quelli delle zone più “calde”. Non è facile stare in mezzo. Pochi sono sopravvissuti tra quelli che hanno scelto di non schierarsi. Mi ricordo, in quelli anni scrivevo una lettera ad alcuni amici all'estero. La Nato aveva appena bombardato la Serbia. Era, anche quella volta lì, per salvare i Civili Bosniaci. In Cabilia, che come La Cirenaica, è sempre stata ribelle e che in quei momenti cercava di rimanere non schierata né con i militari né con i barbuti, si temeva una rappresaglia forte. «Cari fratelli – scrissi in quella lettera – se domani il governo algerino decide di massacrarci in Cabilia, e anche se quel giorno io, per rabbia o per paura, affermerò il contrario, non accettate mai che venga bombardata Algeri. Mai!» Spero che tu, in qualche modo, sia di questo parere.</div><div style="text-align: justify;">L'unica mia speranza è che i giovani libici sapranno trovare, dopo la caduta di Gheddafi, anche il modo di disfarsi di chi arriverà con la tessera da oppositore ottenuta all'estero, forse negli uffici di Langley, forse al Quai d'Orsay o negli studi della Bbc o di Al-jazira. Devo dire però, che vedendo come i ragazzi egiziani e tunisini sono tenaci e non si fanno prendere in giro tanto facilmente, che qualche buona speranza. Dipenderà anche da noi e dal sostegno che sapremo far arrivare alle forze vere del cambiamento, sia in Libia che in Egitto e Tunisia e ovunque esse siano in azione.</div><div style="text-align: justify;">Un caloroso abbraccio</div><div style="text-align: justify;">Karim Metref</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>Qui di seguito la lettera di Farid Adli apparsa su <i>Il Manifesto</i> del 21-03-2011</b></div><div style="text-align: justify;">Dalla Libia arriva un grido di libertà</div><div style="text-align: justify;">di <b>Farid Adli</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Cari lettori, continuate ad abbonarvi al manifesto! Cari compagni del manifesto, redattori e lettori, non sono d'accordo con voi su alcune posizioni, ma continuo a leggere e difendere (per quel poco che posso fare) <i>Il Manifesto</i>. Le riflessioni che sono state avanzate da Rossanda, Castellina, Parlato e Di Francesco sono sacrosante, ma difettano in un punto: non inquadrano la questione libica nel suo contesto storico.</div><div style="text-align: justify;">Sarebbe un dibattito avanzato e profondo su dubbi e zone d'ombra, se non ci fosse in corso una tragedia di un popolo che viene ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e nelle piazze d'affari del mondo industrializzato. La frase del compagno Parlato «Sono e resto un convinto estimatore del colonnello Gheddafi» (Il Sole-24 Ore del 18/2/2011, poi ribadita sulle pagine del manifesto dieci giorni dopo) fa molto male a chi - come me - ha perso la propria libertà a causa del tiranno. Quanti articoli sul manifesto ho dovuto firmare diversamente, per scongiurare una repressione contro i miei familiari.</div><div style="text-align: justify;">Prima di tutto, quella in corso non è una guerra civile; lo potrà diventare in futuro, ma adesso è una resistenza popolare contro un tiranno, la sua famiglia, i miliziani e mercenari. È paragonabile alla resistenza italiana contro il fascismo mussoliniano.</div><div style="text-align: justify;">La questione della bandiera issata sulle zone liberate, avanzata da Manlio Dinucci, quella dell'indipendenza, non è un sintomo di ritorno al passato. Quella bandiera non è certo proprietà dell'ex re Idriss o della confraternita senussita. (A proposito, non ho capito il riferimento del compagno Parlato all'asserito antisemitismo di Idriss. Essere anti-sionisti non è necessariamente antisemitismo. Vi ricordo che prima dell'occupazione della Palestina, tra i vari progetti per creare Israele, nella prima metà del Novecento, la Cirenaica era uno dei luoghi proposti. Essere contrari a quei propositi non è certo antisemitismo). Io avrei usato la bandiera rossa, ma io e la mia generazione non contiamo nulla in questa rivoluzione. La corrente monarchica nell'opposizione è assolutamente minoritaria e lo sbandierare di quel tricolore, con stella e mezzaluna in bianco, non è un attaccamento al passato ma un chiaro rifiuto del regime. Fondare su questo una critica ai giovani libici che hanno affrontato a petto nudo le mitragliatrici anti-carro dei miliziani e mercenari di Gheddafi, è di una ingenerosità disarmante. Non si nega qui l'esistenza di piani internazionali per mettere le mani sul petrolio della Libia, ma la rivoluzione libica del 17 Febbraio 2011 non è guidata da fantocci dell'imperialismo, bensì da giovani e democratici che hanno una storia nel paese. La caduta del muro della paura, dopo le esperienze di Tunisia e Egitto, li ha portati ad alzare la testa contro la tirannia. Se non mettiamo al centro dell'attenzione questo grido di libertà, che nasce dal basso, non capiremmo nulla dai moti di rivolta che stanno caratterizzando la lotta dei paesi arabi contro le cariatidi al potere da troppi anni.</div><div style="text-align: justify;">La seconda questione riguarda il Gheddafi socialista. Le tesi sul cosiddetto socialismo arabo hanno imperversato negli anni Cinquanta e Sessanta, al momento del riscatto nasserian-baathista di Egitto e Iraq. Interessanti esperienze di borghesia nazionale del sud del mondo, che sono state, solo per necessità, anti-imperialiste nella prima fase del loro sviluppo. In Iraq, Egitto e Siria di quegli anni i comunisti e i socialisti sinceri sono stati perseguitati e repressi. Quelle esperienze di colpi di stato hanno dato molti frutti positivi sul piano sociale, ma solo nella prima fase del loro sviluppo. La tendenza verticistica e la mancanza di una legittimità democratica, da una parte, e l'attacco dei paesi occidentali alleati di Israele dall'altro (guerra di Suez nel 1956 e quella del 5 giugno 1967) hanno reso questi nuovi regimi delle oligarchie militari che nulla hanno a che fare con l'idea di una giusta distribuzione della ricchezza nazionale e dello sviluppo sociale e culturale dell'essere umano, base di ogni esperienza socialista.</div><div style="text-align: justify;">Gheddafi arriva dopo, nel 1969. La «spinta propulsiva» del golpe militare contro il vecchio re Idriss, per dirla con Berlinguer, è finita molto presto. Già nel 1973 della rivoluzione degli ufficiali liberi non c'era più nulla, se non la spietata repressione di ogni dissenso. Le forche all'Università, l'allontanamento dei compagni d'armi, la cancellazione di ogni forma d'opposizione, il divieto dei sindacati, l'annullamento di ogni azione indipendente della società civile, l'uccisione degli oppositori all'estero (l'Italia è stata un teatro prediletto per azioni terroristiche) e le operazioni militari contro civili che protestavano pacificamente contro le volontà del tiranno (anni '80 e '90 a Derna e Bengasi...), il massacro di Abu Selim (26 giugno 1996), sono esempi di questo dominio di una nuova classe dirigente che si è ridotta di fatto alla famiglia di Gheddafi e a una piccola cerchia di suoi seguaci.</div><div style="text-align: justify;">La corruzione imperante e il dominio totale dei servizi segreti sulla vita quotidiana dei cittadini sono alla base di un regime che ha sperperato le ricchezze del paese non per costruire una Libia moderna capace di creare occupazione e prosperità per il popolo, ma per comperare le coscienze, conquistare l'appoggio di altri dittatori, in impossibili e perdenti guerre africane (Uganda, Ciad...) e nel lusso per i suoi figli e adepti. La Libia è un paese ricco, ma i libici sono poveri. Un impiegato prende l'equivalente di 170 dollari al mese, mentre uno degli stolti figli del tiranno ha speso due milioni di dollari per uno spettacolo, durato solo un'ora, di una cantante americana, Beyoncé, in una discoteca di Las Vegas.</div><div style="text-align: justify;">Del socialismo gheddafiano, i libici hanno un ricordo sbiadito dei supermercati vuoti dalle mercanzie e della noiosa e stupida burocrazia corrotta, simile a quello che hanno ereditato le giovani generazioni dell'est europeo. E non tutto era anticomunismo.</div><div style="text-align: justify;">Non credo che Gheddafi rappresenti una continuazione dell'esperienza non allineata di Nasser. Castellina fa bene a ricordare l'importanza di quell'idea, peraltro ridotta al silenzio dalla spietata aggressione imperialista, di rifiuto di schierarsi per forza con uno dei due patti militari in cui era diviso il mondo del secondo dopoguerra. Nasser è morto povero e suo figlio non ha ereditato nessun ruolo politico. Qui invece abbiamo la ricchezza petrolifera del paese considerata come proprietà privata della famiglia e il potere jamahiriano ridotto a una ridicola monarchia. Considerare Gheddafi come parte di quel mondo che si è incamminato nel solco del nobile esperimento dei «Non Allineati» è stato un errore di valutazione della compagna Castellina.</div><div style="text-align: justify;">Non bastano le belle intenzioni del colonnello! Quel che conta nella politica è l'azione. Anch'io, come molti giovani libici di allora, ho occupato il Consolato libico a Milano e ho distrutto la gigantografia di re Idriss. Ma già nel 1973, l'Unione generale degli studenti libici che guidavo, ha occupato l'ambasciata libica a Roma, per protesta contro l'impiccagione nell'atrio dell'Università di Bengasi (per di più senza processo) degli studenti che chiedevano libertà e rappresentanza.</div><div style="text-align: justify;">La sinistra libica è stata cancellata con uccisioni e detenzioni e in alcuni casi con la compravendita delle coscienze, nel più totale silenzio. È stata anche colpa nostra, perché non siamo stati capaci di comunicare e tessere relazioni e abbiamo vissuto l'azione di opposizione in forme organizzative frammentarie. Ma non si può dare a Gheddafi la patente di rappresentante di un'idea di socialismo. Gli errori di questo tiranno non si limitano agli ultimi dieci anni, come sostiene il compagno Parlato (<i>Il Manifesto</i>, 27 febbraio), ma risalgono a ben più lontano.</div><div style="text-align: justify;">Gheddafi ha sbandierato il vessillo dell'anti-imperialismo e dell'anti-colonialismo, ma sotto il tavolo ha barattato la propria salvezza personale con accordi che hanno aperto la Libia al saccheggio dei paesi ricchi. Siamo consapevoli che il petrolio fa gola a molti. E per questo siamo contrari a ogni intervento militare esterno. L'opposizione ha chiesto una «No Fly Zone» per impedire l'uso dell'aeronautica da parte del colonnello (come sta avvenendo in queste ore su Brega e Ajdabieh).</div><div style="text-align: justify;">Gli uomini che formano il governo provvisorio di salute pubblica sono persone che conosco personalmente e sono serie e fidate. Non sono secessionisti né fondamentalisti. La matrice democratica che li spinge a ribellarsi agli ordini del tiranno è fuori discussione. Non dar loro ascolto, sarebbe un grave errore da parte della sinistra italiana e dell'Italia democratica tutta.</div><div style="text-align: justify;">Infine, l'autolesionismo. Perseverare nell'errore sarebbe il peggio. Il giudizio positivo che si dava di alcune esperienze dei paesi dell'emisfero sud non vieta la possibilità di una revisione critica. Come avvenne per la critica dei paesi del socialismo reale dell'est europeo, anche oggi è possibile prendere atto della fine di un'illusione. Il giudizio di allora aveva le sue ragioni contingenti e di contesto. La situazione attuale è un'altra. E va riconosciuta per quel che è. Non credo sia lungimirante cospargerci il capo di cenere per gli errori di valutazione e analisi del passato. Ricordiamoci che Mussolini era stato socialista e che Giuliano Ferrara era comunista.</div><div style="text-align: justify;">Anche nel ricordo e per monito di quelle sconfitte, cari lettori, continuate a comperare <i>Il Manifesto</i>, strumento indispensabile per informarsi e discutere del mondo di oggi!</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><i>* Farid Adli, con lo pseudonimo Abi Elkafi, ha scritto su Il Manifesto molte cronache della rivolta libica</i></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-32254118882474728332011-03-25T00:01:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.337-07:00Quando la seconda moglie è europea e immigrata. Storie di quotidiano Senegal<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://4.bp.blogspot.com/-GyCvI2mzTbg/TV6BpFIDB4I/AAAAAAAABas/qTXIDmYlFDk/s1600/Mariama_Ba__public_domain_.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="200" src="http://4.bp.blogspot.com/-GyCvI2mzTbg/TV6BpFIDB4I/AAAAAAAABas/qTXIDmYlFDk/s200/Mariama_Ba__public_domain_.jpg" width="148" /></a></div><div style="text-align: justify;">Dakar-clandò</div><div style="text-align: justify;">la rubrica di <b>Chiara Barison</b></div><div style="text-align: justify;">Quando anche le donne europee, per amore, accettano il matrimonio poligamo, condividendo il proprio uomo con altre mogli</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>DAKAR</b>. Lo scorso anno, quando presentai all'Università di Trieste il documentario <a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/p/le-invisibili-documentario.html">"Le invisibili"</a>, il dibattito che ne seguì fu animato. Girato interamente in Senegal, parla di donne senegalesi sposate con migranti partiti in Europa, le loro difficoltà, la loro percezione di un matrimonio in cui viene a mancare la quotidianità, il dolore di una separazione fatta di vuoti incolmabili e l'ibridazione culturale a cui si assiste ormani da anni, proprio a causa di una migrazione sempre più complessa. </div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Sociologi, professori e studenti furono incuriositi soprattutto quando le sonne senegalesi intervistate hanno affrontato la tematica della poligamia. In Senegal la poligamia è permessa e un uomo ha diritto ad avere fino ad un massimo di quattro mogli. Per loro, le donne, questa pratica culturale è normalità, abituate fin da piccole a crescere in famiglie dove seconde, terze e quarte mogli (chiamate zie) entrano ed escono da casa o condividono la stessa con la prima.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Cosa accade allora quando la seconda moglie è bianca (in generale in Senegal con il termine "bianca" si sottointende "europea")? Le donne senegalesi delle <a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/p/le-invisibili-documentario.html">"Invisibili"</a> hanno raccontato di come per anni fosse diventato normale farsi passare come le sorelle o le cugine del marito quando questo tornava al paese accompagnato da una moglie europea, ignara di essere parte di un matrimonio poligamo. “Si mente, nonostante il dolore, per non pregiudicare la situazione del marito e dunque, di conseguenza, quello di tutta la famiglia”. Questa la risposta comune. Lo stereotipo corrente vuole infatti che la maggior pare dei matrimoni con europee sia per interesse (documenti, denaro, investimenti di vario tipo). Uno stereotipo talmente radicato che a livello sociale, questo tipo di matrimonio è considerao un vero e proprio investimento familiare. Le mogli senegalesi dovevano allora tacere. Dichiararsi in quanto moglie alla donna europea avrebbe potuto essere causa di rottura tra quest'ultima e il marito senegalese e dunque, sempre secondo lo stereotipo, pregiudicare la situazione economica di tutta la famiglia.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Oggi invece qualcosa sta cambiando. I senegalesi emigrati non nascondono più il fatto di essere sposati o che con molta probabilità, saranno poligami. Starà alla donna europea decidere se continuare la relazione, entrando nell'ottica della possibilità di un matrimonio poligamo, o se rompere. E in aumento, in Senegal, le donne europee immigrate prime, seconde, terze mogli. Un fenomeno che comincia a divenire visibile e che ha contribuito a dare coraggio ai giovani uomini senegalesi e a svelare la loro reale situazione sentimentale una volta all'estero.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">“Conosco almeno tre donne bianche che hanno accettato la poligamia. Io ho detto subito alla mia fidanzata svizzera che ero già sposato. All'inizio è stato difficile ma alla fine è diventata la mia seconda moglie” così mi racconta Ibou, 35 anni, emigrato in Svizzera da cinque. Come lui tanti i senegalesi poligami che hanno una moglie europea. Monica è una bella signora di mezza età. Non passa inosservata, ha un caschetto biondo alla Raffaella Carrà, dal taglio e dalla piega perfetta che brilla sotto il sole di Dakar. E' di origine polacca ma è cresciuta in Italia. E' la seconda di tre mogli e da qualche tempo si è trasferita in Senegal, a Yoff, dove condivide la casa costruita dal marito senegalese con le altre due mogli di lui, anche loro senegalesi. “Ho conosciuto mio marito a Parma. Prima di allora non avrei mai immaginato di innamorarmi di un africano, invece” mi racconta sorridendo “il nostro è stato ed è un grande amore. Dura ormai da quasi 15 anni. Quando l'ho conosciuto mi ha detto che era sposato e che la moglie che aveva era arrivata dopo un primo matrimonio, imposto dalla famiglia e finito perché la ragazza era sterile. Anche nel caso della nuova moglie, la scelta è stata fatta dalla madre. Non so dirti perché ho accettato di essere seconda moglie. Io so solo che lo amavo e rispettavo il fatto che fosse stato sincero con me. E' stato più difficile accettare una terza moglie, imposta dal padre” continua Monica.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Se è vero che tradizionalmente in Senegal la maggior parte dei matrimoni erano combinati all'interno della famiglia tra cugini (tanto che alcuni detti popolari dicono che il vero amore di un uomo è la seconda moglie, perché in generale la prima è quasi sempre scelta dai genitori), oggi le cose sono cambiate e rari sono i matrimoni imposti. Oggi i giovani scelgono e i genitori, più aperti e moderni, tendono ad accettare le scelte dei figli. Cosa accade allora? Accade che per convincere in un periodo più breve una fidanzata europea ad accettare un matrimonio poligamo, risulta più semplice far credere che esista ancora l'imposizione di una moglie senegalese da parte delle famiglia, anche se questo non è sempre vero. Oppure, al contrario, per accontantare la madre si accetta una moglie senegalese da lei scelta che possa fare da domestica a tutta la famiglia del marito, cosa che difficilmente una donna europea accetterebbe. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">“La convivenza è stata dura all'inizio” mi dice Monica “mi sono ritrovata con due donne più giovani di me con cui non condivido nulla, troppo prese dalla cura del corpo, dal trucco e dal parrucco. E tra di loro è sempre guerra costante”. Il marito di Monica lavora in Italia e torna al paese il tempo delle vacanze, in genere due mesi da dividere in tre mogli. “Una volta soffrivo nel sapere che mio marito avesse una vita sessuale con altre mogli ma oggi non ci penso nemmeno più, io so che ciò che ci unisce è speciale, è un legame più profondo fatto di anni vissuti assieme e di condivisione di gioie, dolori e difficoltà. Le mogli senegalesi non conoscono davvero (mio) marito, loro lo vedono come colui che si prende carico di loro e delle loro famiglie”.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Anche Michela vive un matrimonio poligamo. “Ho conosciuto Babacar a Padova, tramite amici. Ci siamo sposati dopo un anno” mi racconta seduta nel salotto di casa a Liberté 5, un tranquillo quartiere vicino al centro. “Eravamo sposati da quattro e avevamo già un bambino quando dopo uno dei suoi viaggi in Senegal è tornato dicendomi che aveva sposato una cugina. Mi sono sentita morire. L'ho vissuta come un tradimento, una coltellata alle spalle. Ma non me la sono sentita di lasciarlo e quando lui si è trasferito per sempre qui, l'ho seguito. L'altra vive a Pikine, nella periferia, a casa di lui” poi continua “la settimana vive qui, il week end lo passa da lei”. Michela lavora nell'impresa di costruzioni aperta dal marito, impresa nella quale anche la seconda lavora come segretaria. Michela è amica di Claire, una ragazza di 35 anni, francese. Lei è terza moglie di un senegalese residente a Lille. Anche Claire, come Monica e Michela vive qui a Dakar. “Ho conosciuto mio marito all'università. Era già sposato con una senegalese in Francia e con una cugina in Senegal, nonostante avesse appena 38 anni. Me ne sono innamorata perdutamente e dopo qualche tentennamento ho deciso di sposarlo in moschea qui a Dakar” mi racconta guardando a terra, poi continua “non è stato semplice. Il problema è che la poligamia è una pratica culturale lontana dal nostro modo di pensare e concepire il matrimonio. Anni prima non avrei mai pensato che potesse essere possibile per me diventare la terza moglie di qualcuno, invece ho scoperto che si cambia e si cambiano opinioni. Quando sono venuta in Senegal ho abitato dalla seconda moglie, Astou, con cui ho un ottimo rapporto. Mio marito vive attualmente in Francia con la prima moglie. Io stò a Ngor un quartiere bene di Dakar, mentre Astou vive vicino all'aeroporto. Quando nostro marito torna si divide tra me e lei”. Ascolto in silenzio anche se una parte di me vorrebbe porre mille domande. Da donna non riesco ad essere lucida ed oggettiva come vorrei e come il ruolo di ricercatrice che investo mi imporrebbe. Alla fine cedo, “ma non ti dà fastidio sapere che tuo marito condivide riti quotidiani e intimità con un'altra donna?”, domanda forse banale ma che nasce spontanea “sì, certo che mi dà fastidio, ma si entra in un meccanismo per cui si resetta. Si pensa solo a quando tuo marito è con te, quando lui se ne va si cerca di non pensare a cosa facciao a cosa farà con l'altra. E' l'unico modo per non impazzire”. Trasformazioni culturali. Nel frattempo una telefonata: “Amore come stai? Domani ti invio i soldi per l'affitto. Mi manchi” dall'altra parte del telefono Mamadou, il marito di Claire. Normale telefonata di un modou modou (<i>termine con il quale vengono definiti i senegalesi che emigrano</i>, ndr) alla moglie rimasta al paese. Ma chi l'avrebbe detto che un giorno la terza moglie sarebbe stata bianca? Gli anziani di paese sono ancora confusi e forse Mariama Ba, autrice del bellissimo libro “Une si loungue lettre” (una lettera lunghissima), in cui trascrisse tutto il dolore dell'esperienza di un matrimonio poligamo, ne avrebbe di cose da ridire.<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" scrolling="no" src="http://www.facebook.com/plugins/likebox.php?href=http%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fpages%2FCorriere-Immigrazione%2F159383420754376&width=400&colorscheme=blue&show_faces=false&stream=false&header=false&height=80" style="border: none; height: 80px; overflow: hidden; width: 400px;"></iframe></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-91640462655911669102011-03-24T13:00:00.001-07:002012-08-21T09:01:48.404-07:00Aboliamo le prigioni?<div style="text-align: justify;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TMguI7RmaAI/AAAAAAAABNY/zZMuJfh-DQE/s1600/Angela_Davis_NESWEEKCOVER.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="http://2.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TMguI7RmaAI/AAAAAAAABNY/zZMuJfh-DQE/s200/Angela_Davis_NESWEEKCOVER.gif" width="154" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale. Di Angela Davis. 265 pag, 14,40 euro. Minimum fax editore</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">di <b>Luigi Riccio</b></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br />
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<b><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">RECENSIONI.</span></b><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"> Angela Davis è una figura storica del movimento afroamericano statunitense degli anni settanta. Militante del Partito Comunista degli Stati Uniti, nel 1970 venne accusata di complicità nel rapimento (che portò poi all’uccisione) del giudice Harold Haley ad opera di Janathan Jackson e altre Pantere Nere, e incarcerata. </span><br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">L’evento scatenò una campagna globale di grande intensità, a cui presero parte eminenti figure come John Lennon e Yoko Ono (la canzone <i>Angela </i>fu scritta per lei), i Rolling Stones (cui dedicarono <i>Sweet Black Angel</i>), Jean-Paul Sartre e, in Italia, da Antonio Virgilio Savona del quartetto Cetra. Fu proprio tra le mura di quella prigione che maturarono le sue prime riflessioni sul carcere e sul complesso carcerario-industriale. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TMQdVan4wBI/AAAAAAAABMc/woOKRx5QoPk/s1600/Copertina+Aboliamo+le+prigioni.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TMQdVan4wBI/AAAAAAAABMc/woOKRx5QoPk/s320/Copertina+Aboliamo+le+prigioni.jpg" width="233" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Partendo dal presupposto che il carcere si configuri come una struttura fortemente sessista e razzista, il pensiero della Davis potrebbe essere riassunto con il concetto di “democrazia dell’abolizione”. Che non significa, letteralmente, distruggere di punto in bianco le strutture detentive esistenti. Ma piuttosto fare in modo che non diventino il serbatoio in cui rinchiudere gli scarti che la società non riesce ad integrare.</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Nelle carceri statunitensi odierne la stragrande maggioranza della popolazione è costituita da neri e ispanici; gente di solito provenienti da zone, ghetti difficili a cui non si profila altra opzione se non l’arruolamento nelle forze armate o la delinquenza. Quindi, se è vero che sul piano formale la legge è uguale per tutti è anche vero che, essendo astratta, non entra nel merito di quelle condizioni sociali che rendono inevitabile il sorgere della criminalità. </span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">E si arriva ad un altro punto, critico: la privatizzazione delle strutture detentive, che la Davis indica con il nome di complesso carcerario-industriale (palese riferimento al complesso militare-industriale). Cosa succede quando corporation sempre più potenti, con un indotto in costante aumento, hanno tutto l’interesse a che le persone commettano reati? O quando, con i campi di lavoro, possono disporre di manodopera a basso prezzo? Accade che, invece di riflettere su come fare a meno delle prigioni, ci si interroghi invece, e soltanto, su come renderle più "sicure". </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br />
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<span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">La critica della Davis si rivolge alla totale assenza di una riflessione generale sull’uso e abuso delle carceri, contro il cosiddetto “riformismo” che indirizza le sue energie sul solo miglioramento delle strutture e non sul progressivo smantellamento di esse, andando alla ricerca di quelle leggi, studiando quei processi che le rendono un destino inevitabile.</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Con una disamina delle riflessioni storiche sull'argomento, <i>Aboliamo le prigioni?</i> traccia il profilo delle carceri statunitensi odierne; soffermandosi sulla loro inadeguatezza per le donne (solo le perquisizioni integrali sono equiparabili a veri e propri stupri), sull'aumentare di malattie mentali tra i detenuti, sul persistente grado di razzismo. E la domanda che segue è: il carcere è obsoleto? Può il carcere sostituire in eterno politiche che mirino ad estirpare la criminalità laddove è impossibile che non nasca? Siamo pronti ad imboccare un percorso di inclusione, invece che perseverare come unico obiettivo l’esclusione, e per di più a fini di lucro, di intere fette di popolazione?</span></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-44055801957727035182011-03-24T05:26:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.346-07:00Indigenous knowledge for nature conservation and natural disaster management<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh3.googleusercontent.com/-VrCQfwKulaA/TYs4ey2ccNI/AAAAAAAABfQ/28Zp7TiN-z4/s1600/facing-challenges-300x224.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="149" src="https://lh3.googleusercontent.com/-VrCQfwKulaA/TYs4ey2ccNI/AAAAAAAABfQ/28Zp7TiN-z4/s200/facing-challenges-300x224.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Minime africane</i></div><div style="text-align: justify;">la rubrica di <b>Daniele Mezzana</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
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<div style="text-align: justify;"><b>RUBRICHE</b>. Indigenous knowledge (IK) has helped local populations for many centuries in sectors such as nature conservation and the prevention and management of natural disasters and health through traditional medical practices.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Despite this, they risk disappearing owing to the poor consideration people have of them and because the main people with this knowledge are now elderly and there is scant written documentation. With the encouragement of the United Nations Environment Programme (UNEP), in 2004, a pilot project was carried out to help the communities to recognise, promote and make use of the indigenous knowledge in fields such as environmental conservation, natural disaster forecasting, traditional medical practices and the alleviation of poverty. Following a field study in Kenya and in other African countries, the project conducted awareness-raising and information activities on the possible uses of indigenous knowledge in these fields and a training course to strengthen the capacities of the various stakeholders (policymakers, researchers, donors, citizens, etc.) to promote and use indigenous knowledge in nature conservation and natural disaster management.</div><br />
<div style="text-align: justify;">The project saw the creation and inclusion online of a database, divided according to country, in order to store the knowledge, make it accessible to a vaster number of users, and create consensus towards the valorisation of indigenous knowledge, firstly among policymakers, and to provide a place for IK-holders to meet and exchange information and views.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">http://www.unep.org/ik/</div><div style="text-align: justify;">http://www.un.org/esa/devaccount/projects/0405P.html</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Excerpt from Mezzana D. (ed.), “Technological responsibility. Guidelines for a shared governance of the processes of socialization of scientific research and innovation, within an interconnected world”, forthcoming, SET-DEV (European Commission) www-set-dev.eu</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><i>The picture “degraded lands” is culled from: http://africaclimate.org</i></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-66427560539214505142011-03-23T07:50:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.377-07:00L'appello: L'Italia deve agire per porre fine alle violenze in Libia! (video)<div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-paPRmbGA0iE/TZCgAPxT3jI/AAAAAAAABfk/2FXnUBQz1e8/s1600/20110303_164548_3C853C79.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="124" src="http://3.bp.blogspot.com/-paPRmbGA0iE/TZCgAPxT3jI/AAAAAAAABfk/2FXnUBQz1e8/s200/20110303_164548_3C853C79.jpg" width="200" /></a></div><i>Appello in favore dei manifestanti e dei rifugiati libici: accoglienza non respingimenti! </i></div></div><div><div style="text-align: justify;">di <b>Amnesty International</b>, con un video di <b>Zalab</b></div></div><div><div style="text-align: justify;"><br />
</div></div><div style="text-align: justify;"><b>L'APPELLO</b>. In questi giorni drammatici di conflitto armato e gravi abusi è quanto mai urgente sostenere il popolo libico nella sua richiesta di libertà e diritti umani e rilanciare le politiche italiane di accoglienza nei confronti di migranti e rifugiati, non dimenticando le responsabilità dell'Italia per aver costruito negli ultimi dieci anni una cooperazione istituzionale e operativa con la Libia di Gheddafi senza alcuna attenzione per i diritti umani.<br />
<a name='more'></a></div><div style="text-align: justify;">Amnesty International ha ripetutamente chiesto che i diritti umani e le garanzie per rifugiati, richiedenti asilo e migranti venissero messi al centro della cooperazione con la Libia sul controllo dei flussi migratori. Alla luce degli eventi degli ultimi giorni in Libia, Amnesty International chiede al governo italiano di intervenire in prima linea in difesa dei diritti dei manifestanti libici e dei rifugiati.<br />
<div style="text-align: justify;">Scrivi al Premier Berlusconi e ai Ministri Maroni e Frattini affinché riportino al centro della discussione le gravi violazioni dei diritti umani subite dal popolo libico e da rifugiati, richiedenti asilo e migranti che si trovano tuttora in Libia.<br />
<br />
<b><u><a href="http://www.amnesty.it/mettere-diritti-umani-al-centro-cooperazione-con-la-Libia">Firma la petizione, clicca qui!</a></u></b></div><div style="text-align: justify;"><br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="300" src="http://www.youtube.com/embed/Yz1ZImoNpgU" title="YouTube video player" width="300"></iframe><br />
<br />
</div><div style="text-align: justify;"><i><b>Silvio Berlusconi</b></i></div><div style="text-align: justify;"><i><b>Presidente del Consiglio</b></i></div><div style="text-align: justify;"><i><b>Palazzo Chigi</b></i></div><div style="text-align: justify;"><i><b>Piazza Colonna 370</b></i></div><div style="text-align: justify;"><i><b>00187 Roma</b></i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>Egregio Presidente del Consiglio,</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>sono un simpatizzante di Amnesty International, l'organizzazione internazionale che dal 1961 agisce in difesa dei diritti umani, ovunque nel mondo vengano violati. Le scrivo perché sono profondamente turbato per le gravi violazioni di diritti umani che continuano a venire riportate dalla Libia. Credo che il governo italiano abbia il dovere di impegnarsi maggiormente, quale membro di Nazioni Unite, Unione Europea ed altre organizzazioni internazionali, per fermare le atrocità.</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>La sollecito ad utilizzare le relazioni di lunga durata del governo italiano con le autorità libiche per chiedere la fine immediata e incondizionata delle gravi violazioni dei diritti umani attualmente in corso in Libia, in particolare dell'uso eccessivo della forza, inclusa la forza letale contro la popolazione. Le chiedo, inoltre, di sollecitare l'apertura di indagini sui crimini di diritto internazionale commessi in Libia affinché i responsabili siano assicurati alla giustizia.</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>Decine di migliaia di persone sono in fuga dalla violenza e dalla persecuzione in Libia e in cerca di sicurezza nei paesi vicini. E' fondamentale che gli Stati membri dell'Unione europea assumano un ruolo più attivo per affrontare la crescente crisi umanitaria in Libia. L'Unione europea e l'Italia devono urgentemente offrire il proprio sostegno sia ai rifugiati che fuggono dalla Libia per salvarsi la vita, sia agli stati confinanti con la Libia che sono obbligati ad assorbire e a proteggere questi rifugiati. Le chiedo di favorire un'evacuazione umanitaria immediata ed un'accoglienza in Europa per i rifugiati già riconosciuti e per tutte le persone in fuga da persecuzioni che si trovano in questo momento intrappolate in Libia.</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>La invito infine a gestire eventuali arrivi di migranti e richiedenti asilo nel rispetto dei diritti umani, astenendosi dal mettere in atto respingimenti indiscriminati nel tentativo di contrastare i flussi migratori a tutti i costi. Infine, Le chiedo di sostenere gli sforzi dei Paesi confinanti con la Libia, affinché coloro che fuggono dal conflitto possano ottenere adeguata assistenza umanitaria.</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>La ringrazio per l'attenzione.</i></div></div>Corriere Immigrazionehttp://www.blogger.com/profile/08892560651295778113noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-55218480648309358882011-03-21T04:00:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.354-07:00Pax Christi: “Perchè si sceglie sempre e solo la strada della guerra?”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh3.googleusercontent.com/-oIgpmaSw-FA/TYdEAJDT8OI/AAAAAAAABfM/nLql1uGrXU8/s1600/portaerei.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="151" src="https://lh3.googleusercontent.com/-oIgpmaSw-FA/TYdEAJDT8OI/AAAAAAAABfM/nLql1uGrXU8/s200/portaerei.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Il presidente mons. Giudici interviene sul conflitto con la Libia: “Mentre parlano solo le armi, si resta senza parole". Intanto Pax Christi continua la campagna per il disarmo contro la produzione di cacciabombardieri F-35</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Redattore Sociale</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><b>PAVIA</b>. “Mentre parlano solo le armi, si resta senza parole. Ammutoliti, sconcertati”. Inizia così la nota del presidente di Pax Christi Giovanni Giudici, sulla guerra alla Libia.<br />
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">“Il regime di Gheddafi prosegue mons. Giudici - ha sempre mostrato il suo volto tirannico. Pax Christi, con altri, ha denunciato le connivenze di chi, Italia in testa, gli forniva una quantità enormi di armi senza dire nulla, anche dopo la sua visita in Italia “sui diritti umani violati in Libia, sulla tragica sorte delle vittime dei respingimenti, su chi muore nel deserto o nelle prigioni libiche”.</div><br />
<div style="text-align: justify;">“Il Colonnello era già in guerra con la sua gente anche quando era nostro alleato e amico! Non possiamo tacere la triste verità di un’operazione militare che, per quanto legittimata dal voto di una incerta e divisa comunità internazionale, porterà ulteriore dolore in un’area così delicata ed esplosiva, piena di incognite ma anche di speranze. Le operazioni militari contro la Libia non ci avvicinano all’alba, come si dice, ma costituiscono un’uscita dalla razionalità, un’’odissea’ perchè viaggio dalla meta incerta e dalle tappe contraddittorie a causa di una debolezza della politica”.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Di fronte a questi fatti, Pax Christi propone cinque passi di speranza e uno sguardo di fede. Il primo: passo: “Constatiamo l’assenza della politica e la fretta della guerra. E’ evidente a tutti che non si sono messe in opera tutte le misure diplomatiche, non sono state chiamate in azione tutte le possibili forze di interposizione. L’opinione pubblica deve esserne consapevole e deve chiedere un cambiamento della gestione della politica internazionale”. Il secondo passo: “Si avverte la mancanza di una polizia internazionale che garantisca il diritto dei popoli alla autodeterminazione”. Il terzo: “Non vogliamo arrenderci alla logica delle armi. Non possiamo accettare che i conflitti diventino guerre. Teniamo desto il dibattito a proposito delle azioni militari, chiediamo che esse siano il più possibile limitate e siano accompagnate da seri impegni di mediazione. Perchè si sceglie sempre e solo la strada della guerra? Ce lo hanno chiesto più volte in questi anni i tanti amici che abbiamo in Bosnia, in Serbia, in Kosovo, in Iraq”.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Il quarto passo: “Operiamo in ogni ambito possibile di confronto e di dialogo perché si faccia ogni sforzo così che l’attuale attacco armato non diventi anche una guerra di religione. In particolare vogliamo rivolgerci al mondo musulmano e insieme, a partire dall’Italia, invocare il Dio della Pace e dell’Amore, non dell’odio e della guerra. Ce lo insegnano tanti testimoni che vivono in molte zone di guerra”. Infine: “Come Pax Christi continuiamo con rinnovata consapevolezza la campagna per il disarmo contro la produzione costosissima di cacciabombardieri F-35. Inoltre invitiamo tutti a mobilitarsi per la difesa della attuale legge sul commercio delle armi, ricordiamo anche le parole accorate di d.Tonino Bello: “dovremmo protenderci nel Mediterraneo non come “arco di guerra” ma come “arca di pace”. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Giovanni Paolo II per molti anni ha parlato dei fenomeni bellici contemporanei come “avventura senza ritorno”, “ spirale di lutto e di violenza”, “abisso del male”, “suicidio dell’umanità”, “crimine”, “tragedia umana e catastrofe religiosa”. Per lui “le esigenze dell’umanità ci chiedono di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono essere subordinati” (12 gennaio 1991).</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">“In questa prospettiva Pax Cristi ricorda ai suoi aderenti che il credente riconosce nei mali collettivi, o strutture di peccato, quel mistero dell’iniquità che sfugge all’atto dell’intelligenza e tuttavia è osservabile nei suoi effetti storici. Nella fede comprendiamo che di questi mali sono complici anche l’acquiescenza dei buoni, la pigrizia di massa, il rifiuto di pensare. Chi è discepolo del Vangelo non smette mai di cercare di comprendere quali sono state le complicità, le omissioni, le colpe. E allo stesso tempo con ogni mezzo dell’azione culturale tende a mettere a fuoco la verità su Dio e sull’uomo”. </div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-22647639021156970392011-03-20T23:00:00.001-07:002012-08-21T09:01:48.333-07:00Idra: sopravvivere a Castel Volturno. Immigrati in terra di mafia<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TKSJiKYdunI/AAAAAAAABKw/RPu-v9pYrGg/s1600/immigrati-castelvolturno-2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="138" src="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TKSJiKYdunI/AAAAAAAABKw/RPu-v9pYrGg/s200/immigrati-castelvolturno-2.jpg" width="200" /></a></div>
<div style="font-family: inherit; text-align: justify;">
L'ostilità dello Stato, le vessazioni della mafia, la solidarietà delle associazioni locali a Castel Volturno raccontate da un documentario di Damiano Giacomelli </div>
<div style="text-align: justify;">
di <b>Luigi Riccio</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
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<div style="text-align: justify;">
<b>RECENSIONI. </b>Come vivono gli immigrati a Castel Volturno? Quanto pesa sulle loro spalle la presenza sia di organizzazioni criminali che di istituzioni discriminanti (locali e nazionali)? Tanto. Poiché il “ghetto” non è metaforico, ma fisico, palpabile.</div>
<a name='more'></a><div style="text-align: justify;">
Dove mafie spietate, come quella dei Casalesi, hanno il potere di controllare ogni mossa, ogni passo, di dare un prezzo alla tua vita e di sfruttarla. L’Idra è lei, la mafia. Un solo mostro, tante teste: dietro un contratto di affitto, un caporale di “Califfo Ground” (<i>le piazze dove gli immigrati attendono i caporali</i>, ndr), attorno ai marciapiedi dove battono le prostitute: c'è lei. E può decidere, come nel 2008, di trucidare sei africani innocenti solo per fornire una prova di forza (e di razzismo).</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Non è tutto buio per fortuna, sia nel documentario (<i>Idra: sopravvivere a Castel Volturno</i> di Damiano Giacomelli) che nella realtà. La forza deterrente c’è ed è esercitata dalla società civile: il centro sociale ex Canapificio, che fornisce assistenza legale e ricreativa agli immigrati della zona; l’associazione Nero e Non Solo, che offre momenti di aggregazione agli oltre 200 braccianti impegnati a Parete (CE); o Libera di Don Luigi Ciotti, che continua nella sua opera di conversione di beni confiscati dalla mafia.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’immigrazione raccontata in questo breve documentario è di quelle peggiori e che eguaglia, per drammaticità, solo situazioni ormai note come Rosarno. Poiché nelle terre di Idra, agli immigrati è legato un doppio cappio: non solo quello del governo centrale, sprezzante, ma anche quello informale, della mafia… che è cannibale.</div>
<div style="text-align: justify;">
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<div style="text-align: justify;">
<b>Idra: sopravvivere a Castel Volturno. Scritto da Matteo Farnedi, Damiano Giacomelli, Emanuele Pantano e diretto da Damiano Giacomelli. 23'</b></div>
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<a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/2010/09/due-anni-fa-sei-africani-trucidati-dai.html">Due anni fa: sei africani trucidati a Castel Volturno: Video</a><br />
<a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/2010/06/altre-rosarno-la-condizione-degli.html">La condizione degli immigrati a Castel Volturno</a><br />
<a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/2010/09/castel-volturno-e-rosarno-per-non.html">Castel Volturno e Rosarno: per non dimenticare</a><br />
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<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" scrolling="no" src="http://www.facebook.com/plugins/likebox.php?href=http%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fpages%2FCorriere-Immigrazione%2F159383420754376&width=400&colorscheme=blue&show_faces=false&stream=false&header=false&height=80" style="border: none; height: 80px; overflow: hidden; width: 400px;"></iframe>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-41272305114595043822011-03-19T23:39:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.343-07:00Antiquaire: esperto d'arte o gigolò professionista?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TSr6AcrB4OI/AAAAAAAABXo/E56qttAwxww/s1600/gambie_447.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="132" src="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TSr6AcrB4OI/AAAAAAAABXo/E56qttAwxww/s200/gambie_447.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Dakar-clandò</i></div><div style="text-align: justify;">La rubrica di <b>Chiara Barison</b></div><div style="text-align: justify;">Antiquaire: termine passato dal campo dell'arte a quello della conquista di uno status migliore, attraverso la ricerca senza scrupoli di una donna bianca</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>DAKAR.</b> In questi giorni sono immersa nella lettura di un libro davvero interessante, "La filosofia morale dei Wolof", di Alassane Sylla. Se non riesco a comprendere appieno i meccanismi culturali di un popolo con cui mi ritrovo a convivere, forse un libro sul loro pensiero potrà aiutarmi a decifrare comportamenti restati ancora indecifrati.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Ho pensato così quando l'ho scovato tra i tanti libri in vendita all'IFAN (L'Instituto Fondamentale dell'Africa Nera), dipartimento all'interno dell'Università pubblica Cheikh Anta Diop di Dakar. E l'allora studente Alassane Sylla aveva colto un aspetto essenziale per la comprensione e la descrizione di una cultura, la lingua. In quella che sarebbe stata la sua tesi, Sylla ha analizzato puntigliosamente la sottigliezza della lingua wolof e i significati veicolati da proverbi e modi di dire, basi di un pensiero comune. Chissà dove il brillante filosofo avrebbe collocato gli <i>antiquaire</i>.</div><div style="text-align: justify;">L'appellativo <i>antiquaire</i>, in origine, colui il quale si occupa di arte, o, più semplicemente, chi vende tutto ciò che all'arte è legata, quadri, tessuti, statuine è slittato poco per volta verso un altro significato parallelo. Oggi, <i>antiquaire </i>è chi investe nella ricerca di un/una toubab che possa garantirgli una sussistenza sul breve o lungo termine o la possibilità di partire all'estero. E qui in Senegal in molti, giovani e meno giovani, scelgono di diventare <i>antiquaire</i>. Un'ibridazione culturale nata da una duplicità di situazioni: la prima, l'impossibilità di viaggiare, che spinge le persone ad escogitare vie alternative che permettano la partenza e, la seconda, l'immagine sociale che i senegalesi emigrati all'estero si portano dietro, una volta rientrati in patria. Se chi torna, nella maggior parte dei casi, fa un salto nella scala sociale, grazie ad un miglioramento della sua situazione economica e, conseguentemente, di quella di tutta la sua famiglia, farà passare l'idea che perché questo salto in positivo avvenga, il passaggio necessario sia la partenza. E cosa succede se questa partenza è negata e, dunque, se è negata, agli occhi dei senegalesi, la possibilità di miglioramento? Verranno attivate possibilità alternative, ivi comprese quelle più ingegnose, sottili. E anche quelle lontane da una morale comune condivisa.</div><div style="text-align: justify;">D'altronde anche la morale wolof, presentata da Sylla, riassume in due proverbi un messaggio chiaro: “<i>Mbeggé du mat ngor mat</i>”, non può esserci al tempo stesso cupidità perfetta e onestà perfetta e “<i>Ku sa begge bari, sa ngor nééw</i>”, ovvero, chi ha troppi desideri ha poco onore. E i giovani senegalesi, impazienti di riuscire, di imporsi socialmente, di partire, di avere tanto, subito e con il minimo sforzo, mettono da parte l'onestà per investire in ciò che sembra la via più facile verso la riuscita, una toubab.</div><div style="text-align: justify;">Nelle spiaggie un esercito di ragazzotti dai fisici scultorei passano i pomeriggi a fare ginnastica nella speranza di attirare l'attenzione delle turiste appena arrivate, meglio se al loro primo viaggio in Senegal. Con i proprietari delle stazioni balneari piccoli accordi amicali che passano dall'avvisare gli <i>antiquaire </i>di nuove turiste appena arrivate, al fare le presentazioni iniziali. E ogni <i>antiquaire </i>investe nell'attesa di conoscere una bianca, il proprio personale lasciapassare per una vita migliore. Molte le famiglie che spingono figli e figlie a cercare un matrimonio di interesse con chi viene dall'Europa. Se un figlio o una figlia dovesse sposarsi con un/una bianco/a questo vorrebbe dire un investimento sicuro per tutta la famiglia, almeno secondo lo stereotipo imperante.</div><div style="text-align: justify;">In molti casi, infatti, chi è riuscito a sposarsi con una toubab è riuscito non solo a partire all'estero ma anche ad ottenere un miglioramento generale della propria famiglia: soldi, bollette e affitti pagati, regali, case o attività finanziate. Un modo per abbreviare costi e tempi. Se, infatti, per arrivare ad avere tutto ciò non basta una vita stando qui in Senegal mentre serve una vita di sacrifici, una volta arrivati soli in Europa, con una bianca tutto questo sarà più veloce e più facile, sempre che la bianca si innamori. </div><div style="text-align: justify;">In quartieri come Ngor e Yoff la maggior parte degli uomini ha una moglie toubab e il restante spera di trovarla a breve. Lo stereotipo è talmente radicato che perfino i senegalesi di Dakar ti dicono che chi abita a Ngor non ama lavorare ma aspetta di sposare una bianca per vivere di rendita, mogli senegalesi consenzienti. Una spirale che ha trasformato una credenza popolare in realtà sociologica dimostrata.</div><div style="text-align: justify;">Incontro Lamine ad una festa di amici. E' un <i>antiquaire </i>ed è di Ngor, 26 anni, alto e prestante. Non lavora ma ha sempre soldi e non nasconde il fatto che ha investito parte della sua vita nella ricerca di una toubab da sposare.</div><div style="text-align: justify;">“In Senegal se non hai le possibilità, devi creartele” mi dice sorridendo “io abito a Ngor e da noi ci sono sempre turiste. Ogni settimana ne arrivano di nuove e con loro si può sopravvivere, ti fanno regali e ti danno soldi, e hai sesso facile. In generale mi servono due giorni”. Lamine ne parla come se parlasse di un lavoro normale. In effetti tutti lo conoscono e sanno quanti pochi scrupoli Lamine si faccia rispetto ai sentimenti delle persone, quello che gli interessa è guadagnare. Guadagnare e partire. E ne ha fatte di vittime Lamine, l'ultima una bella signora di mezza età, belga, rovinata in soli due anni. In due anni Lamine ha visto quadruplicare il suo conto in banca, pagato un appartamento e le bollette della casa familiare e aperto un piccolo locale in prossimità della spiaggia. A sforzo zero. “Sai Chiara noi non possiamo viaggiare e allora io prendo da chi viene ciò che mi è stato tolto” mi dice secco, come se volesse giustificare un comportamento che in fondo neanche lui approva totalmente. Poi continua “alle volte vado dal marabutto perché faccia in modo che queste donne si innamorino e mi diano tutto ciò che chiedo”.</div><div style="text-align: justify;">Gli amici di Lamine pendono tutti dalle sue labbra. Lamine è sfacciatamente arrogante e furbo. E riesce in tutto ciò che cerca. E' lui il leader indiscusso degli <i>antiquaire </i>di Ngor. Alla festa è con Yaya, 24 anni e una fidanzata spagnola conosciuta in spiaggia e Mamadou, 22 anni, fresco di matrimonio con una ragazza francese, conosciuta, guarda un po’ te, sempre in spiaggia.</div><div style="text-align: justify;">Scopro poi che è proprio lì il punto di ritrovo della combriccola e che all'interno della compagnia esiste una vera e propria scala piramidale al cui vertice si trova appunto, Lamine. E' lui che orienta, lui che smista, lui che dà ad ognuno una turista. </div><div style="text-align: justify;">“In generale meglio se la toubab è al primo viaggio, quando ancora è ingenua e non conosce nulla del paese. E' facile farle innamorare e crederà a tutto quello che racconti. E' così che ho conosciuto la mia attuale moglie” mi racconta. “Ti sei sposato?” gli chiedo un attimo confusa, visto che è in compagnia di una fidanzata belga. “Sì. Pochi mesi fa. Ho conosciuto mia moglie in un bar sulla spiaggia. E' una ragazza canadese. Due giorni dopo che l'ho conosciuta eravamo assieme, dopo un mese lei è ripartita, ci siamo sentiti via skype finché ad ottobre è tornata e ci siamo sposati. Era innamorata pazza”. “E tu?” gli chiedo “Mmm” esita “sì, ma poi cos'è l'amore Chiara? Io so che adesso finalmente partirò ma so anche che non sarà solo lei l'unica moglie”.</div><div style="text-align: justify;">Vado a prendermi da bere. La storia di Lamine non mi è nuova, ma come spesso accade è difficile accettare il calcolo sul sentimento. Giustificabile? Non credo. Credo piuttosto che andrebbero riviste le politiche dei visti o, più semplicemente, che andrebbe garantito ad ognuno il diritto di movimento, si eviterebbero, forse, situazioni di questo tipo. </div><div style="text-align: justify;">Lamine torna a sedersi vicino alla fidanzata belga, di vent'anni più grande. Lei lo accarezza e lo bacia. Sa che si è sposato ma continua a prendersene cura come se Lamine fosse un bambino viziato, come se fosse incapace di essere uomo, dimenticando che pagare per essere amati non è amore, ma si paga per un'illusione temporanea. </div><div style="text-align: justify;">Mi giro e mi rigiro e mi accorgo che la festa è un tripudio di <i>antiquaire </i>e fidanzate bianche di <i>antiquaire</i>, di almeno dieci anni più grandi dei fidanzati. Sorseggio veloce un bicchiere di vino. </div><div style="text-align: justify;">“Ma Yaya è innamorato della sua fidanzata?” chiedo a Mamadou “Sì, almeno credo, so che l'ha tradita con altre finché lei era in Spagna ma, a parte questo, credo di sì” mi risponde. “L'ha tradito con delle senegalesi?” continuo. “No! Figurati. Un <i>antiquaire </i>abituato alle toubab difficilmente retrocederà alle senegalesi. E' stato con altre bianche” mi dice secco. Retrocedere? Penso al verbo che Mamadou ha utilizzato e ripenso al libro di Sylla. Effettivamente la traformazione culturale passa anche e soprattutto attraverso la lingua. E così, nel Senegal del 2011, un senegalese che passa da una relazione con una toubab ad una con una senegalese 'retrocede' (economicamente parlando) e <i>l'antiquaire </i>non vende più arte, ma il suo corpo e la menzogna d'amore in cambio di un visto. Filosofia morale di un sistema mondo decisamente amorale e tristemente ineguale.<br />
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<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" scrolling="no" src="http://www.facebook.com/plugins/likebox.php?href=http%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fpages%2FCorriere-Immigrazione%2F159383420754376&width=400&colorscheme=blue&show_faces=false&stream=false&header=false&height=80" style="border: none; height: 80px; overflow: hidden; width: 400px;"></iframe></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-77167684412051423012011-03-18T05:18:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.383-07:00Ci risiamo, bellezza!<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh6.googleusercontent.com/-_rFM0wcQvYk/TYdBoR01GyI/AAAAAAAABfI/lMdbiwKxac0/s1600/ScreenHunter_02-Mar.-20-01.51.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="173" src="https://lh6.googleusercontent.com/-_rFM0wcQvYk/TYdBoR01GyI/AAAAAAAABfI/lMdbiwKxac0/s200/ScreenHunter_02-Mar.-20-01.51.gif" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Scatta l'operazione "Odissea Dawn" sotto l'egida dell'ONU per imporre la no-fly-zone. La Lega Araba e l'Unione Africa criticano i raid. La TV libica parla di 64 civili uccisi dalla coalizione anti-Gheddafi, la Francia smentisce</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Karim Metref</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>LIBIA</b>. Erano nate tante speranze dalle rivolte nordafricane. Molti popoli si stavano sollevando per emulare i tunisini e gli egiziani che hanno deciso di prendere il loro destino in mano.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Alla fine le potenze militari del pianeta non ce l'hanno fatta a non metterci le loro mani , già sporche del sangue di tanti popoli, per inquinare ciò che era pulito. Sarà questa ancora solo una primavera dei cannoni?</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Sembra che si gira e si rigira e va a finire sempre nella guerra. Non c'è dubbio che Gaddafi sia un tiranno criminale, che ha sottomesso le sue popolazioni con un misto di terrore e di corruzione di massa. Non c'è dubbio che non vale nemmeno la corda per impiccarlo. Ma l'altra cosa sicura è che in questo mondo, da quando è finita la guerra fredda. Da quando ci fanno credere che il mondo libero abbia vinto e si sia imposto come modello da applicare ovunque... da quel momento in poi, ogni crisi, vera o finta che sia, finisce sempre con il linguaggio dei cannoni.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Cosa si è tentato per evitare un ricorso alla forza? Che passi diplomatici sono stati fatti? C'è stato un quale tentativo di interposizione? no. Niente di tutto ciò. Tutta la discussione, sin dall'inizio è stata se fare o non fare l'intervento militare. All'epoca di Clinton c'era una barzelletta che girava, dopo gli ennesimi bombardamenti su Baghdad: «qual'è la differenza tra un repubblicano e un democratico? Il primo bombarda prima poi attiva la diplomazia, il secondo muove la diplomazia per legittimare i bombardamenti.”</div><div style="text-align: justify;">Ebbene questa barzelletta, alla fine, potrebbe applicarsi a tutte le dirigenze delle prime potenze occidentali. Di sinistra o di destra che siano. Repubblicani, democratici, socialisti, capitalisti, socialdemocratici... Tutti alla fine obbediscono ad una sola e unica logica: quando gli interessi economici dei loro padroni sono in pericolo, bisogna colpire, colpire duro. E che non mi si venga parlare di diritti, di civili minacciati! Ci sono paesi africani che si fanno a pezzi da anni senza che nessuno sia mai intervenuto.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Non ci vengano a dire che è per instaurare la democrazia in Libia. L'abbiamo vista come l'hanno instaurata in Iraq e in Afghanistan. È semplicemente e solamente una fottutissima guerra neo coloniale. Un punto e basta. Non si sa quanto sia casuale il fatto che questo accada proprio in Libia. Non si sa perché, di tutte le rivolte solo quella della Libia sia finita in questo modo. Non si sa, e forse non lo sapremo mai, se ci sono stati veramente i massacri, i crimini contro l'umanità che ci hanno raccontato?</div><div style="text-align: justify;">Quanti altri genocidi ci hanno raccontato che poi si è scoperto che era tutta una montatura: le armi di sterminio di Saddam, il massacro di Timisoara che non c'è mai stato, i massacri montatura in kossovo, oppure la pura invenzione dei crimini dell'esercito iracheno contro i neonati negli ospedali del Kuwait.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Mi ricordo come Marco Guidi ne “La sconfitta dei media” (Baskerville 1993) raccontava come la terribile guerra in Jugoslavia avrebbe preso inizio dalle manipolazioni mediatiche che hanno fatto credere a bombardamenti su Lubjana che in realtà non ci sono mai stati. Gaddafi è certamente un assassino, ma lo sappiamo con certezza che quelli che lo stanno bombardando dopo averlo armato e arricchito, valgono ancora meno di lui. Forse fra qualche mese qualche giornalista tra i pochi onesti ce lo racconterà come ci hanno convinto ad accettare il loro ennesimo “intervento umanitario”, proprio laddove ci sono grossi interessi in gioco. Ma allora sarà troppo tardi, e diremo: ora che si può fare? Bisogna andare avanti.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Forse allora capiremo da dove proviene la miriadi di “attivisti dell'opposizione” in giacca e cravatta che dai microfoni di Al Djazira, hanno chiamato tutti i giorni all'intervento militare. Forse un giorno sapremo tutto. Ma per ora non sappiamo niente. Sappiamo solo che non è stato fatto niente per provare a riportare la pace.</div><div style="text-align: justify;">So che qualcuno mi dirà che è una caduta di stile. Ma in questo momento mi sento come i ragazzi di Gaza: incazzato con il mondo e disperato. E mi viene solo da dire: Fanculo Sarcozy, Fanculo Obama, Fanculo Cameron! Voi e i vostri missili, i vostri Raffale, mirage, F16 e F17, i vostri portaerei e sottomarini, le vostre compagnie schifose e i loro oleodotti e gasdotti. </div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-47413285605872015092011-03-15T09:58:00.000-07:002012-08-21T09:01:48.347-07:00Il sistema italiano di asilo verso il caos: perché?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"></div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh6.googleusercontent.com/-o6Z4ZdXz0ME/TYQegEAlJFI/AAAAAAAABfE/GZB-9yGWjzU/s1600/Unhcr-nell-UE-troppe-disparita-nell-accoglienza-dei-rifugiati-riapertura-in-Libia_medium.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="140" src="https://lh6.googleusercontent.com/-o6Z4ZdXz0ME/TYQegEAlJFI/AAAAAAAABfE/GZB-9yGWjzU/s200/Unhcr-nell-UE-troppe-disparita-nell-accoglienza-dei-rifugiati-riapertura-in-Libia_medium.jpg" width="200" /></a></div><i>A un mese dall’inizio della situazione di crisi, l’Asgi ritiene che il Parlamento italiano, l’opinione pubblica e la Commissione Europea debbano sapere. Da qui una serie di interrogativi</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>ASGI </b>(Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>ATTUALITA</b>'. L’ASGI esprime il proprio sconcerto per le evidenti e gravissime carenze che stanno caratterizzando la gestione degli interventi statali di accoglienza dei rifugiati in fuga dalla Tunisia e dalle altre aree di crisi. </div><a name='more'></a>Ad un mese dall’inizio della situazione di crisi l’ASGI ritiene che il Parlamento italiano, l’opinione pubblica e la Commissione Europea debbano sapere:<br />
<div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">1. per quale ragione non sono stati reperiti con prontezza nuovi posti di accoglienza, come fu fatto nel 2008 di fronte ad una situazione numericamente simile a quella attuale, individuando strutture idonee in tutto il territorio nazionale, in un’ottica di decentramento degli interventi; </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">2. per quale ragione in particolare non si è fatto ricorso alla rete dello SPRAR chiedendo ai Comuni che hanno progetti attivi di allargare le disponibilità di posti e attingendo altresì alla probabile disponibilità da parte dei molti Comuni che solo alcuni mesi fa avevano chiesto di entrare nello SPRAR ma la cui domanda non era stata accolta per esaurimento del fondo ordinario; </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">3. per quale ragione si è scelto di puntare, anche con grande enfasi demagogica, sul residence degli aranci a Mineo prevedendo irrazionalmente di deportarvi, come sta avvenendo, richiedenti asilo già accolti nei vari CARA in Italia, adducendo come motivazione quella di liberare in tal modo nei CARA posti di accoglienza per nuovi arrivi, ma in realtà producendo un gioco a somma zero posto che con tutta evidenza detta operazione non determina alcun aumento dei posti complessivi di accoglienza del sistema asilo. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">I trasferimenti forzati, iniziati dal CARA di Bari e che stanno avvenendo manu militari, senza alcun provvedimento individuale, oltre che comportare inutili ingentissime spese, pongono, come già sollevato da tutti gli enti di tutela e dall’UNHCR, rilevanti problemi di legittimità per lo sradicamento delle competenze in sede amministrativa e giurisdizionale. Nei trasferimenti forzati in corso non si rinviene alcun criterio di ragionevolezza ed utilità relativamente ad un esame equo e veloce delle istanze di asilo già depositate (anzi appare evidente come l’intera procedura venga fortemente rallentata) e comunque avvengono senza tenere conto delle condizioni di vulnerabilità psico-fisica di molti richiedenti (persone traumatizzate, vittime di tortura, disabili, famiglie con minori etc) che avevano già intrapreso percorsi di accoglienza e di cura presso i servizi socio-sanitari nei vari territori, che vengono così bruscamente interrotti. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Mentre il sistema italiano di accoglienza, incapace di fare fronte un numero di arrivi significativo ma finora del tutto gestibile, sta velocemente sprofondando verso il caos, il commissario straordinario per l’emergenza Prefetto Caruso da una settimana ignora la richiesta di incontro urgente avanzata da tutti gli enti di tutela italiani (ASGI, ACLI, ARCI, Caritas Italiana, CIR, FCEI, Comunità di S. Egidio, Ass. Senza Confine) di concerto con l’UNHCR. </div><div style="text-align: justify;">L’ASGI considera questo silenzio del Prefetto Caruso ,un fatto gravissimo. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">L’ASGI rinnova la richiesta che il Governo adotti un provvedimento di protezione temporanea ex art. 20 del D.Lgs 286/98 nei confronti di coloro che stanno arrivando dalla Tunisia e lancia un appello affinché: </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">a) la gestione dell’accoglienza avvenga in modo decentrato, reperendo nuovi posti su tutto il territorio nazionale, con priorità attraverso lo SPRAR evitando le concentrazioni in Sicilia e a Mineo in particolare (area che per la sua vicinanza alla base militare di Sigonella è altresì la più esposta a possibili ritorsioni militari da parte del regime libico); </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">b) le deportazioni forzate dei richiedenti asilo dai vari CARA vengano immediatamente sospese. </div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-20403175355318089462011-03-09T09:27:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.331-07:00Appello all'Europa per gli eritrei in Libia: “Evacuarli o si richia un bagno di sangue”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh5.googleusercontent.com/-p2xwppFSZi4/TXkJ0v3xJnI/AAAAAAAABeI/3CgeB-w81Tw/s1600/344761.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="200" src="https://lh5.googleusercontent.com/-p2xwppFSZi4/TXkJ0v3xJnI/AAAAAAAABeI/3CgeB-w81Tw/s200/344761.JPG" width="160" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Habeshia, Cir e comunità del Corno d’Africa si rivolgono al Consiglio Europeo per 4 mila rifugiati. A Tripoli situazione esplosiva, si chiede un’azione umanitaria per salvarli prima che la rivolta arrivi nella capitale libica</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Raffaella Cosentino</b>, Redattore Sociale</div><div style="text-align: justify;"><br />
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<div style="text-align: justify;"><b>ATTUALITA</b>'. Evacuare d’urgenza migliaia di rifugiati eritrei, somali ed etiopi che si trovano in Libia per evitare un massacro. E’ questo l’appello lanciato oggi con un sit in a piazza Santi Apostoli e una conferenza nella sede della rappresentanza del Parlamento europeo a Roma dall’Agenzia Habeshia, dal Consiglio italiano per i rifugiati e dalle comunità del corno d’Africa.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Alla vigilia del Consiglio europeo straordinario sulla crisi libica a Bruxelles, le associazioni umanitarie chiedono l’intervento dell’Europa, partendo dall’esperienza positiva dei primi 58 rifugiati eritrei arrivati a Crotone l’8 marzo con un C130 dell’aeronautica militare.</div><br />
<div style="text-align: justify;">Sono 4.000 i rifugiati eritrei, somali ed etiopi che si trovano bloccati a Tripoli, altri 500 sono a Bengasi, secondo le stime fatte dal Cir con il vescovo di Tripoli Mons. Giovanni Martinelli. Se a loro si sommano i migranti dell’Africa sub-sahariana si arriva a 11 mila persone, di cui 8 mila già registrati dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ma se per i subsahariani ci sono ancora le ambasciate dei paesi d’origine che in alcuni casi, come la Nigeria, stanno organizzando delle evacuazioni, i rifugiati del Corno D’Africa non hanno alcuna possibilità di lasciare il paese in guerra. Un dramma nel dramma, con i più deboli che rischiano di pagare il prezzo maggiore.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">“Siamo qui per dire che l’Europa deve farsi carico di un’evacuazione umanitaria e che queste persone vengano accolte in diversi paesi europei – ha detto Savino Pezzotta, presidente del Cir – Bisogna fare in fretta, ogni ora che passa mette a rischio la sicurezza di 4 mila persone”. Il Consiglio italiano per i rifugiati ha lanciato un appello assieme ad altri enti e associazioni aderenti al ‘Tavolo asilo’. “I rifugiati attualmente intrappolati in Libia, tra cui le 8 mila persone riconosciute dall’Unhcr, sono completamente privi di alcuna protezione e sono esposti ad atti di violenza e a gravi forme di persecuzione a causa della loro appartenenza a una minoranza e alla loro nazionalità – si legge nel documento - Questi rifugiati sono vittime della violenza esercitata sia da parte delle milizie rimaste fedeli a Gheddafi che da una parte degli insorti. L’Unione Europea non può rimanere inerte di fronte a queste gravi e diffuse violazioni di diritti umani.” Il Tavolo asilo chiede al Consiglio dell’Unione Europea, alla Commissione Europea e ai governi dell’Unione che “ venga con priorità assunto l’impegno ad assistere i rifugiati intrappolati in Libia in particolare prevedendo un’evacuazione umanitaria immediata ed un’accoglienza negli stati membri”. Domani ci sarà una manifestazione a Ginevra e altre hanno avuto luogo in Svezia e Gran Bretagna. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">“A Misratah i detenuti sono stati costretti a prendere le armi contro la piazza, da quel momento è partita la caccia all’immigrato africano - ha spiegato don Mussie Zerai, presidente di Habeshia – ho ricevuto messaggi di gente aggredita per strada con i coltelli, se Tripoli cadrà nelle mani dei rivoltosi, uno dei rischi è il bagno di sangue se la rabbia della gente si sfogherà sui rifugiati”. Anche secondo Gino Barsella, capo progetto in Libia del Cir, il vero problema resta a Tripoli. “L’unica possibilità è l’evacuazione umanitaria fatta dall’Unione europea e il gesto italiano crea un precedente per gli altri stati, dimostra che è possibile se c’è la volontà politica – ha affermato – però va fatto prima possibile, prima che la guerra civile arrivi in città”. In attesa di un’eventuale evacuazione su mezzi europei, il vescovo Martinelli si sta occupando di registrare tutti i rifugiati presenti e la chiesa cattolica di Tripoli è diventata il punto di aggregazione per eritrei, somali e etiopi, sia cristiani sia musulmani.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Situazione esplosiva nella capitale libica, ma più tranquilla a Bengasi, dove i 500 rifugiati hanno occupato una ex fabbrica turca. “L’Acnur sta facendo un accordo con il governo provvisorio dei ribelli per entrare in Libia dal confine egiziano e cercare di portare fuori queste persone – ha spiegato Barsella – anche se l’Alto commissariato non è presente nel paese, ha fatto un piano di reinsediamento di emergenza per tutti quelli che fuoriescono dalla Libia”. Continue aggressioni per le strade, persone portate via dalle loro case o costrette a lasciarle dai padroni di casa libici che li considerano mercenari sostenitori del regime, uomini barricati dall’inizio della rivolta per paura. i somali si sono rifugiati nella loro ex ambasciata a Tripoli. Solo le donne escono per fare la spesa e sono costrette a pagare i generi di prima necessità anche il triplo del prezzo fatto ai libici. Soprusi, violenze e terrore. Lo hanno raccontato esponenti delle comunità che hanno i familiari in Libia e anche alcuni dei 58 eritrei arrivati ieri a Crotone. Tra di loro ci sono 26 bambini tra cui molti neonati. </div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-73014607782391338382011-03-07T23:40:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.380-07:00Un primo passo per cambiare il mondo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://4.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TH0wmFYwDVI/AAAAAAAAA-c/bRD0zkyfCKE/s1600/rossana.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" ox="true" src="http://4.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TH0wmFYwDVI/AAAAAAAAA-c/bRD0zkyfCKE/s200/rossana.jpg" width="133" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">La scrittrice Rossana Campo (</span></i><a href="http://corriereimmigrazione.blogspot.com/2010/07/io-credo-nello-sforzo-di-chi-cerca-di.html"><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Lezioni di Arabo, Feltrinelli editore</span></i></a><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">) racconta di un suo incontro, riaffiorato nei ricordi dopo la visione del film London River di Rachid Bouchareb</span></i></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">di</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"> <b>Rossana Campo</b> </span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><b>IL RICORDO. </b>Il 7 luglio del 2005 me lo ricordo bene. Avevo appena ritrovato un vecchio amico perso di vista da quasi vent'anni, un amico dei tempi di Genova, ci eravamo ritrovati per caso e ci eravamo promessi di non perderci per altri vent'anni. Era partito da Parigi il mattino presto con l'eurostar per fare un salto a Londra, altra gente da rivedere, cose sue da inseguire. Io avevo acceso la radio verso mezzogiorno e avevo sentito la notizia delle bombe sui mezzi pubblici. Avevo provato subito a chiamare T. sul telefonino che risultava sempre staccato. </span></div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Per un momento mi si era gelato il sangue. Solo verso le cinque del pomeriggio ero riuscita a sentirlo. Stava bene, ma era sconvolto da quello che era successo a Londra. </span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Il film che sono andata a vedere oggi, <i>London River</i>, racconta una storia che parte proprio dal 7 luglio 2005, da quei fatti. C'é Mrs. Sommers, una donna che vive su un’isola della Manica, e sente quella notizia alla televisione. Telefona alla figlia Jane, studentessa a Londra. Jane non risponde. Mrs. Sommers decide di partire a cercarla. C'é Ousmane, un africano che lavora in Francia, cura i boschi. Anche suo figlio Alì, che non vede da quando aveva sei anni, vive e studia a Londra. Anche Ousmane va in cerca del figlio. Mrs. Sommers e Ousmane si incontrano, scopriranno che i loro due ragazzi si amavano, vivevano insieme e Jane seguiva dei corsi di arabo insieme ad Alì. Il regista Rachid Bouchareb propone come in altri suoi film il dialogo tra culture diverse. Mrs. Sommers e Ousmane sono due genitori come tanti, con due fedi differenti, lei protestante, lui musulmano. Si incontrano e dopo la diffidenza iniziale di Mrs. Sommers cominceranno ad avvicinarsi, sostenersi, e a conoscersi un po'. Qualcosa cambierà nella loro vita. Quello che il regista sembra dirci é: se riuscissimo a trasformare la paura, l'aggressività e la lontananza quasi istintiva che proviamo nei confronti di chi ha un colore diverso dal nostro, un'altra lingua, altri usi, avremmo fatto un primo passo per cambiare il mondo. I personaggi di questo bel film lo fanno.</span></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-64039660157055731322011-03-04T23:59:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.375-07:00Gay e marito. Quando l'omosessualità è una colpa<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TQnxSV8ry0I/AAAAAAAABWQ/NMb_EaCMfL0/s1600/FILEMATRIMONIOGAY.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="133" src="http://2.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TQnxSV8ry0I/AAAAAAAABWQ/NMb_EaCMfL0/s200/FILEMATRIMONIOGAY.JPG" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Dakar-clandò</i></div><div style="text-align: justify;">La rubrica di <b>Chiara Barison</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
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<div style="text-align: justify;"><b>DAKAR</b>. Incontro Ousmane in uno dei tanti fast food del centro. Non è stato facile riuscire a farlo venire. Ousmane è gay, ed essere gay in Senegal vuol dire portarsi dietro il peso di una colpa. L'omosessualità resta un argomento tabù di cui non si può nemmeno parlare. Ousmane si guarda attorno e quasi sussurra le parole, come se la sua omosessualità fosse incisa come un marchio sul suo volto. E' un ragazzo davvero bello, trant'anni e una laurea in storia. <br />
<a name='more'></a>'Ho sempre saputo di essere gay. Fin da piccolo cercavo la compagnia dei maschi, ero attratto da loro, dalla loro fisicità, dal loro modo di fare. Le ragazze non mi interessavano' mi dice prima di abbassare gli occhi e sospirare. 'Qui è difficile. Non è possibile dichiararsi e vivere la propria vita in pace. E allora ho mentito e mento da una vita'. Le parole di Ousmane non mi sono nuove, questa è la quotidianità omosessuale di un paese, il Senegal, fortemente omofobo. 'Qui se sanno che sei gay ti lanciano le pietre, ti insultano, ti allontanano dalla famiglia. Le persone pensano che sia una malattia o, peggio ancora, che sia il risultato di uno dei tanti 'maraboutage' (sortilegi) fatti contro la famiglia' continua Ousmane.</div><br />
<div style="text-align: justify;">'Com'è vivere una doppia vita?' gli chiedo. Sospira, poi riprende 'E' difficile. Sette anni fa sono riuscito a partire per l'Italia. E' stata una liberazione. Sono arrivato a Brescia, a casa di un amico e per la prima volta nelle vita, mi sono sentito libero. Ho avuto una bellissima storia d'amore con un uomo italiano, sposato, per circa due anni'. 'E poi?' incalzo io. 'Poi la moglie ha scoperto tutto, colpa dei messaggi nel cellulare, le è venuta una crisi, ha minacciato di rendere pubblica la cosa e lui, stimato uomo d'affari, non poteva permetterselo. Ha preferito lasciare me. Dopo di lui solo tante piccole avventure'. 'Come mai sei tornato?' continuo 'Non riuscivo a trovare lavoro e i senegalesi cominciavano a parlare. Telefonavano alla mia famiglia dicendo che io andavo a letto con uomini italiani. Ho deciso di tornare e per il bene di mia madre mi sono sposato'.</div><div style="text-align: justify;">Ousmane parla a tratti, lo sguardo sempre attento ogni volta che la porta si apre, poi continua 'E' stato difficile. E' difficile vivere l'intimità con mia moglie. Lei pensa sia colpa sua e piange, mi chiede se ho altre donne. Come faccio a dirle che non ho altre donne ma frequento un uomo?'.</div><div style="text-align: justify;">'Sei fidanzato?' gli chiedo subito io. 'Diciamo. Da qualche tempo frequento Saly, un angolo europeo in mezzo al Senegal. E' lì che ho conosciuto Richard, un uomo francese di 50 anni. Viviamo una storia nella clandestinità, io, per facciata, faccio finta di essere il guardiano di casa e tutti ci credono'.</div><div style="text-align: justify;">'Esiste un mondo omosessuale nascosto, qui a Dakar?' chiedo provocatoriamente. Ousmane risponde senza esitare, 'Sì, eccome. E' un mondo sotterraneo che parte dalle famiglie e arriva fino alla società tutta. Molti sono i locali in cui i gay si ritrovano, in generale sono le discoteche frequentate dagli 'gnak' (termine wolof per designare gli africani anglofoni o, in generale, provenienti dall'Africa centrale). Gli gnak sono più liberi, tanti sono dichiaratamente bisessuali e vivono la loro sessualità con meno paura. A loro non gliene frega niente di essere visti'.</div><div style="text-align: justify;">'Come vedi il futuro?' gli domando. 'Non lo immagino. Per ora vivo il presente e la mia storia d'amore' tentenna per un momento Ousmane poi riprende 'veramente un sogno ce l'ho. Spero che Richard mi porti con lui in Francia. Oggi sarei pronto a scappare e lasciare tutto. Mentire alla mia famiglia mi logora. Ho paura. Ogni singolo giorno ho paura di essere scoperto e di essere linciato. Per i gay qui, l'unica soluzione è trovare un fidanzato europeo che possa aiutarli ad emigrare. Ecco perché la maggior parte degli omosessuali senegalesi frequentano gli alberghi di lusso'.</div><div style="text-align: justify;">Stò zitta e penso. Che tristezza. 'Laggiù' come dicono e pensano in tanti, troppi qui, sembra essere la sola soluzione e questa soluzione passa attraverso chi in Senegal arriva dall'Europa, ponte suo malgrado verso una nuova vita. Peccato poi che in gioco ci siano i sentimenti delle persone. Quelli no, non sono finzione, sono relai. E se per una volta si partisse dalla radice del problema? Se per una volta si cominciasse dall'educazione nelle famiglie? Se si partisse dalla scuola? Se si arrivasse a far capire alle persone che l'omosessualità non è una malattia? Sorseggio anch'io il mio succo. Italia, Senegal, in fondo la situazione non è poi tanto diversa.</div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-80822806136164061442011-03-03T23:56:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.393-07:00Transessuali brasiliane in Italia: dal sogno alla schiavitù<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TPy96KNddaI/AAAAAAAABUw/Ngr6bl7JaoU/s1600/prostituzione-luna1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TPy96KNddaI/AAAAAAAABUw/Ngr6bl7JaoU/s200/prostituzione-luna1.jpg" width="177" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Un tempo era un prestito tra amiche, oggi si può parlare di sfruttamento e tratta. Un’inchiesta per raccontare i meccanismi, i percorsi, le storie di vita delle tante transessuali brasiliane arrivate in Italia con il sogno di lavorare nello spettacolo e di operarsi</span></i></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">di <b>Redattore Sociale</b></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span></div><br />
<div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><b>ATTUALITA'</b>. La prostituzione transessuale dal Brasile all’Italia esiste dagli anni Sessanta, ma nel corso del tempo si è passati dal prestito tra “amiche” alla tratta vera e propria. All’inizio “l’ambizione era andare in Francia, la patria dello spettacolo e della vita mondana”, scrive la mediatrice culturale Marzia Leite su una pubblicazione realizzata da Ora d’aria per spiegare il fenomeno e presentare le risposte offerte dall’associazione.</span></div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">“Con questa motivazione partirono le prime trans brasiliane – prosegue –. Arrivavano in Europa passando dal Mozambico e dal Nord Africa per entrare in Spagna. In Francia si apriva loro un nuovo mondo: accesso alle cure ormonali, applicazioni di silicone e la mitica operazione a Casablanca”.</span></div><br />
<div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Ma tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta le destinazioni cambiano: la meta non è più la Francia, ma la Svizzera, il Belgio e l’Italia, con preferenza Milano, capitale della moda. “Il viaggio è stato sempre organizzato – scrive ancora Marzia Leite –, ma in passato era differente. Una persona veniva in Europa, faceva la sua esperienza e poi tornava nel paese di origine e sosteneva altre a ripeterla, ma senza lucrare eccessivamente, una sorta di prestito con qualche interesse”. Col passare del tempo “si realizza che prostituendosi si guadagna, quindi il prestito aumenta di valore, si chiede una sorta di pizzo, e la cifra sale vertiginosamente di anno in anno”. Ma il sogno europeo è più potente e le aspiranti non mancano. “Era già un’organizzazione di sfruttamento – continua la mediatrice culturale – ma a carattere amicale, e il denaro richiesto continuava ad avere il nome di prestito”.</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">La tratta. Oggi, però, tutto è cambiato. E le “vecchie amiche del passato” di cui parla Marzia Leite, “hanno stretto patti con le organizzazioni criminali e hanno creato una vera e propria tratta di corpi umani”. Il primo aggancio avviene sia attraverso Internet che per conoscenza. Le promesse sono rimaste quelle di sempre: un lavoro, una vita nello spettacolo e le “cure” necessarie per il passaggio di genere. Il viaggio è organizzato nei minimi particolari: si parte in aereo dal Brasile con un visto turistico in tasca, e generalmente si arriva a Budapest o a Zurigo. Qui si incontra un autista, per lo più italiano, che conduce le transessuali direttamente in Italia oppure a Vienna, quando la prima meta è stata Budapest. Da Vienna è possibile e prendere un pullman per l’Italia e poi proseguire il viaggio fino alla città di destinazione in auto o in treno. “Esiste un legame con la criminalità italiana, che offre una serie di servizi – spiega Carmen Bertolazzi. – Fanno da autisti, affittano appartamenti, offrono piccoli servizi e a volte si trasformano in fidanzati-sfruttatori”.</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Nella maggioranza dei casi, la vita in Italia è rigidamente regolata: le transessuali abitano all’interno di appartamenti affollati dove non dispongono di un proprio spazio personale, devono prostituirsi ogni notte nei luoghi che vengono loro indicati e hanno degli orari precisi che sono tenute a rispettare. E tutto naturalmente ha un costo: il viaggio in Italia, l’affitto del posto letto, le spese di casa, la piazzola, i passaggi per raggiungere il posto di lavoro e perfino la chirurgia plastica effettuata in alcuni casi in maniera clandestina. A conti fatti, quindi, non è difficile partire con un debito di 15mila euro, a cui si vanno ad aggiungere le spese per la vita quotidiana. Con il risultato che, pur lavorando molto, non è sempre facile pagare l’intera somma. “Insomma – commenta la presidente di Ora d’aria – tanto guadagni, tanto consumi. La vita di una transessuale costa cara, per non parlare del fatto che, essendo ormai tante in strade, sono diminuite anche le tariffe. Dai 20-50 euro di una volta si arriva anche a 10 euro per il sesso orale”. </span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br />
</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">La denuncia. È questa una delle ragioni per cui alcune alla fine decidono di denunciare i propri sfruttatori, usufruendo dei benefici offerti dall’ex articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione del 1998, che garantisce percorsi di protezione sociale alle vittime di tratta. “Quelle che denunciano si trovano al gradino più basso della scala – spiega Bertolazzi –. Vedono sbiadire ogni promessa, non riescono a saldare il debito oppure non sopportano la brutalità della vita italiana. Spesso sono le più fragili</span>”.</div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-11961571878916798832011-03-03T08:35:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.323-07:00Viaggio nei Cie. Modena: ogni recluso costa 75 euro al giorno<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh4.googleusercontent.com/-G9MorzjiPS8/TW_DLHhIJaI/AAAAAAAABcA/um2BLTP7WS0/s1600/cie-modena.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="151" src="https://lh4.googleusercontent.com/-G9MorzjiPS8/TW_DLHhIJaI/AAAAAAAABcA/um2BLTP7WS0/s200/cie-modena.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Ci sono 59 persone oggi nel centro di identificazione e espulsione gestito dal 2002 dalle locali Misericordie. Per lo Stato un costo triplo del Cie di Crotone (chiuso l’anno scorso): “Ma qui gli operatori sono assunti a tempo indeterminato”</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Gabriele Del Grande</b>, Redattore Sociale</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>MODENA</b>. Costruito appositamente nel 2002, a fianco del carcere, dall’esterno ha l’aspetto di un albergo. Niente filo spinato, niente mura di cinta. Il colore arancione delle pareti rassicura. </div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Ma le gabbie all’interno riportano subito alla realtà. Benvenuti al centro di identificazione e espulsione (cie) di Modena. Sei moduli affacciati a ferro di cavallo su un cortile diviso in quattro aree da una serie di recinzioni metalliche altre quattro metri. Gabbie che servono a isolare i detenuti di un settore da quelli dell’altro. I reclusi sono tutti uomini, la sezione femminile è stata chiusa la scorsa estate. I posti a disposizione sono 60, dieci per modulo. Al momento della nostra visita erano presenti 59 persone, di cui 42 tunisini trasferiti da Lampedusa nelle settimane scorse. In ogni modulo ci sono quattro camere, due da tre posti, e due da due. E due bagni. Al centro del modulo, una sala pranzo con due tavoli di metallo fissati al pavimento insieme alle panche. In alto, una televisione collegata alla parabola, incastonata nel muro e protetta da un vetro infrangibile.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Ogni detenuto ha diritto a un menù personalizzato, a un kit di indumenti, e a una serie di accessori quotidiani, che gli vengono scalati da un bonus di 2,50 euro che matura per ogni giorno di detenzione. Al primo piano c’è una specie di “banca” dove si aggiorna un registro contabile delle entrate e delle uscite per ogni ospite. A disposizione ci sono sigarette, schede telefoniche, merendine, coca cola, shampoo antiforfora e quant’altro. Il servizio di lavanderia è gratuito. Gli indumenti sono igienizzati e sterilizzati a ogni lavaggio. E poi c’è un servizio di assistenza sociale e medica e la possibilità di ottenere prestazioni specialistiche al policlinico. Tutte attenzioni che “servono a diminuire le tensioni” ripete più volte la direttrice del Cie, Anna Maria Lombardo. Già, perché la qualità della struttura detentiva non cambia la questione di fondo: la privazione della libertà per sei mesi di persone che non hanno commesso nessun reato, e il conflitto sociale che ciò rappresenta. Un conflitto che ogni tanto riesplode nonostante i menu personalizzati e la “banca”. L’ultima rivolta è stata domenica scorsa, 27 febbraio, quando i reclusi hanno buttato materassi e vestiti nel cortile dandogli fuoco. E probabilmente altre sono avvenute prima senza che nessuno ne abbia notizia, visto che a differenza degli altri cie, qui la Prefettura ha disposto che i reclusi non possano utilizzare i propri telefoni cellulari per essere contattati dall’esterno da stampa e associazioni.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Per quanto riguarda la gestione, sin dalla sua inaugurazione nel 2002, il cie di Modena è affidato alla Misericordia di Modena, diretta da Daniele Giovanardi. A gennaio 2009 hanno vinto l’ultima gara, valida fino a fine 2011. Dal 2005 inoltre, la Misericordia di Modena gestisce anche il Cie di Bologna, la cui direttrice è la stessa Anna Maria Lombardo. Per ogni persona detenuta presso il Cie di Modena, lo Stato paga 75 euro al giorno. Il triplo della diaria di 26 euro che lo Stato pagava al Cie di Crotone, chiuso dopo le rivolte dello scorso anno. Lombardo si difende dalle facili accuse: “Innanzitutto – dice - c’è una differenza di costo della vita tra il nord e il sud. E poi noi i nostri operatori li teniamo tutti a tempo indeterminato. E poi c’è la qualità del cibo, il kit di ingresso, i servizi, il pocket money. E comunque abbiamo vinto una gara pubblica”. E poi c’è il numero di operatori. In una struttura per 60 detenuti lavorano: 23 operatori sociali, 5 medici, 32 infermieri, 6 mediatori culturali e 4 amministratori. Senza contare i servizi di pulizia e il catering, appaltati a ditte esterne.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><i>Nella foto: due operatori nel cortile del cie di Modena</i></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-87677886570146481812011-03-03T00:01:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.401-07:00Razzismo. Unar: 776 istruttorie nel 2010, il doppio dell’anno precedente<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh5.googleusercontent.com/-arUQMUvkJ98/TX46vIdiaSI/AAAAAAAABeM/ihWUyqeaoGI/s1600/files.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="133" src="https://lh5.googleusercontent.com/-arUQMUvkJ98/TX46vIdiaSI/AAAAAAAABeM/ihWUyqeaoGI/s200/files.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Monnanni (Unar): “I primi 2 mesi di quest'anno rivelano un +35% rispetto allo stesso periodo del 2010. </i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Redattore Sociale</b></div><div style="text-align: justify;"><b><br />
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<b>DISCRIMINAZIONE</b>. “Nel 2010 abbiamo gestito 776 istruttorie, esattamente il doppio rispetto al 2009. E i primi due mesi di quest'anno rivelano un trend del +35% rispetto allo stesso periodo del 2010.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">I dati, tuttavia, non vogliono evidenziare un aumento della discriminazione, ma il fatto che ci stiamo attrezzando per far emergere i fenomeni di razzismo sommersi”. Lo ha evidenziato Massimiliano Monnanni, direttore dell’Ufficio nazionale per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica (Unar), aprendo stamani la Conferenza internazionale sulle reti integrate per la prevenzione e rimozione delle discriminazioni, in corso oggi e domani alla Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">La Conferenza apre ufficialmente la Settimana d'azione contro il razzismo, durante la quale – ha annunciato Monnanni - “si svolgeranno un centinaio le iniziative in tutta Italia”, di concerto con regioni, enti locali e associazioni, di cui una ventina promosse – è la novità di quest'anno – con le organizzazioni sindacali. Domani, nel corso dei lavori, saranno presentati i dati del Rapporto statistico Unar sul 2010, insieme al lancio della campagna di comunicazione contro la discriminazione delle donne straniere.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">“Dal luglio 2009 a oggi abbiamo aumentato la presa in carico dei casi e il monitoraggio dei fenomeni – ha riferito Monnanni -. In questo anno e mezzo abbiamo compiuto un ribaltamento dell'impostazione dell'Unar: aveva una logica centralistica, noi abbiamo iniziato a dialogare con le regioni, con buoni risultati dal punto di vista dell'ascolto e dell'intervento”. Inoltre l'Ufficio “si è riposizionato con associazioni, ong, sindacati, realtà datoriali, avviando strumenti operativi di dialogo” e una maggiore capillarità sul territorio. </div><div style="text-align: justify;">Ancora, il call center “tradizionale è stato trasformato in un contact center: nel 2010 un caso su 5 di discriminazione ci è stato segnalato tramite il nostro sito, consentendo quindi un'accessibilità più ampia del servizio”. Un'altra novità: “Dal 2010 abbiamo cominciato a trattare casi legati alla disabilità, fattori di genere ed età, quindi non solo relativi alla discriminazione in merito alla razza o alla religione: casi che finora non avevano trovato nessun interlocutore istituzionale”. In cantiere, l'Unar ha “l'ambizione di coprire entro il 2012 la metà del territorio nazionale con reti territoriali: quindi implementare ulteriormente i rapporti con gli enti locali”. </div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-86960512148463041272011-03-01T11:47:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.400-07:00Milano, il 21 marzo apre il Festival di cinema africano, d'Asia e America latina<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh5.googleusercontent.com/-f9AyU8ItpvU/TX-0KTiAB3I/AAAAAAAABeQ/-e0XbDuU5FA/s1600/01.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="139" src="https://lh5.googleusercontent.com/-f9AyU8ItpvU/TX-0KTiAB3I/AAAAAAAABeQ/-e0XbDuU5FA/s200/01.JPG" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Il film di apertura sarà “A woman, a gun and a noodle shop”, di Zhang Yimou. Accanto alle sezioni competitive (lungometraggi, documentari e cortometraggi dai tre continenti), quest'anno il festival dedica una sezione speciale proprio alla commedia</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Giulia Genovesi</b>, Redattore Sociale</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>EVENTI.</b> “A woman, a gun and a noodle shop”. È questo il titolo del film con cui il Festival di cinema africano, d'Asia e America latina inaugura la sua 21a edizione, il 21 marzo, all'Auditorium San Fedele di Milano.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Una commedia nera diretta da Zhang Yimou, noto al grande pubblico per film come “Hero” o “Lanterne rosse”. E non è un caso che la scelta sia ricaduta proprio su questo film. Accanto alle tradizionali sezioni competitive, che comprendono lungometraggi, documentari e cortometraggi dai tre continenti, quest'anno il festival dedica una sezione speciale proprio alla commedia: “E tutti ridono...”, che presenta otto film, selezionati insieme a Gino e Michele. “Un modo per inserire nel programma anche opere più commerciali, che nei rispettivi Paesi raggiungono le masse. Ma sempre mantenendo una buona qualità -spiega Alessandra Speciale, della Direzione artistica-. Anche perché spesso è proprio la commedia che, prendendo in giro la società, ne offre un'analisi più acuta”. È il caso di “Tere Bin Laden” di Abhishek Sharma (India, 2010), ambientato tra Pakistan e Usa, che fa satira sulla fobia del terrorismo post 11 settembre e sulla figura di Bin Laden.</div><div style="text-align: justify;"><br />
Altra sezione speciale è quella di “Raiding Africa”, un progetto avviato insieme al Rotterdam international film festival. Mentre l'anno scorso sono stati presentati film girati in Africa da registi asiatici, quest'anno i ruoli si sono invertiti: sette giovani filmmaker africani (con un'età media di 23 anni), hanno viaggiato in Cina e hanno girato corti e mediometraggi in cui osservano e raccontano la cultura cinese. “Se nella realtà è la Cina che sta colonizzando l'Africa, nell'immaginario dei registi è l'Africa che va con le videocamere alla conquista del colosso cinese” commenta Alessandra Speciale. Caroline Kamya, dall'Uganda, ambienta in Cina una tipica fiaba africana. Il video-artista Xenson adotta il punto di vista di un serpente che penetra nella vie di un città cinese (non molte diverse da una giungla), le conquista, ma infine si fa ipnotizzare dalla cultura locale, personificata in una ragazza che suona uno strumento tradizionale. Yves Montand Niyongabo sceglie la prima persona per raccontare il suo viaggio in Cina, in cui, parlando con la gente che incontra per strada giorno dopo giorno, arriva a confutare il bagaglio iniziale di pregiudizi e suggestioni.</div><div style="text-align: justify;">Alla realizzazione del progetto ha partecipato la Li Xianting Film School di Pechino che ha organizzato un workshop di cinema durante il quale i sette giovani registi africani hanno lavorato insieme a professionisti asiatici. “Lo scopo è di mettere in contatto i filmmaker e le piccole realtà produttive indipendenti dei due continenti, favorendo la nascita di collaborazioni e progetti internazionali, a basso costo” dice Alessandra Speciale.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Fra i film in concorso, da segnalare “Ways of the sea” (Filippine): in un film di fiction girato in modo quasi documentaristico, il regista Sheron Dayoc mette in scena le vite dei migranti filippini che cercano di raggiungere la Malesia. Un tema simile è affrontato anche da “The nine muses”, di John Akomfrah: la storia dell'immigrazione africana e indiana in Gran Bretagna negli anni '50 , raccontata sotto forma di una vera e propria Odissea omerica, con fitti riferimenti letterari, musicali, artistici al mito di Ulisse, attraverso un linguaggio sperimentale e poetico.</div><div style="text-align: justify;">Come ogni anno, la sezione fuori concorso “Extr'A” è dedicata ai registi italiani che hanno scelto di parlare dei fenomeni legati all'immigrazione in Italia, come “Il sangue verde”, di Andrea Segre, sui fatti di Rosarno, e “Hermanitos – Fratelli d'Italia”, di Jacopo Tartarone, sulle bande dei Latin kings di Milano.</div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><i><br />
</i></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><i>Su Facebook:</i> <a href="http://www.facebook.com/notes/corriere-immigrazione/al-festival-del-cinema-africano-evento-speciale-dedicato-agli-sconvolgimenti-del/160972760622454">Al Festival del cinema africano evento speciale dedicato agli sconvolgimenti del nord Africa</a></span></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-52128225779824158692011-03-01T05:52:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.351-07:00Dove finiscono i soldi dei dittatori decaduti?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh4.googleusercontent.com/-hfkK9-rbVhI/TWz5l8y0DzI/AAAAAAAABbo/_n2RuljC5pw/s1600/Bocassa.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="200" src="https://lh4.googleusercontent.com/-hfkK9-rbVhI/TWz5l8y0DzI/AAAAAAAABbo/_n2RuljC5pw/s200/Bocassa.jpg" width="152" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>I dittatori cadono e i loro patrimoni vengono congelati. Ma a chi vengono dati. E, soprattutto, per quali usi e condizioni?</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Karim Metref</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
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<div style="text-align: justify;"><b>NORD AFRICA. </b>I tempi sono proprio brutti per i dittatori. Una volta i tiranni in pensione, finivano le loro pensioni in belle proprietà in Inghilterra, in Francia, Italia o in Svizzera. Non venivano disturbati da nessuno e potevano continuare a spendere le loro fortune colossali sparse per le varie banche del mondo ricco. Anche Bocassa, "l'Orco della Repubblica Centro Africana", alla fine non se l'è passata troppo male.</div><a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">Oggi questo stesso mondo ricco sembra non volerli più accettare sulle sue terre dopo averli spremuti. Sono costretti ad esili sempre dorati, ma lontani dal mondo libero e democratico. Sono diventati quasi come i rifiuti radioattivi, si rifiuta di metterli definitivamente al bando della storia, però tutti gli tengono lontani dalla propria casa. Ben Ali è in esilio in Arabia Saudita (probabilmente il più stabile e potente stato burattino della zona), Mubarak è in esilio a Sharm Esheikh. Sì, proprio così. Perché chi è andato a Sharm si è accorto che lì non è Egitto. Per niente.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Gheddafi, probabilmente, se cade, non si arrenderà. O sarà giustiziato come Ceauşescu, alla svelta, o come Saddam dopo un finto processo. Comunque un processo vero e proprio contro questa gente non ci sarà mai. Perché sanno troppe cose per lasciarli parlare. Sia come sia, la fine di questa gente non importa molto. Anche la più brutta delle fini non riporterà mai giustizia a tutti quelli che hanno derubato, ingannato, insultato, ridotto in schiavitù, umiliato, arrestato arbitrariamente, torturato e/o ucciso.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Un po' più importanti sono invece le fortune astronomiche sottratte ai rispettivi popoli e esportate nelle banche occidentali e nei paradisi fiscali. Che fine faranno?</div><div style="text-align: justify;">I beni personali di Saddam, della sua famiglia e quelli dello stato iracheno, ad esempio, furono ritirati in contanti (almeno quelli che erano nelle banche Statunitensi) e portati in Iraq. Ufficialmente, per finanziare la ricostruzione. Erano vari miliardi di dollari. Potevano veramente bastare a ricostruire le infrastrutture del paese e rilanciare l'economia. Invece... nulla! Vaporizzati. L'Iraq è ancora disastrato come all'indomani della guerra. Le strade sono come le ha lasciate Saddam. La ferrovia è un lontano ricordo. La rete elettrica è ancora primitiva e, laddove arriva, assicura una media di 5-6 ore di elettricità al giorno. La barzelletta irachena dice “l'elettricità nel nostro quartiere viene ad intermittenza: un ora non c'è e l'altra dopo … nemmeno.” L'acqua arriva poche ore al giorno anche quella. L'industria è quasi scomparsa da tempo e l'agricoltura è ridotta più o meno come tutto il resto. A che cosa sono serviti, allora, i vari miliardi di dollari che Bremer e Negroponte (i due capi successivi dell'Autorità Provvisoria della Coalizione) avevano nelle loro casse all'inizio dell'occupazione? Probabilmente sono serviti per raggiungere il risultato attuale: il caos più totale. È vero che distruggere una nazione dalle sue fondamenta, dividere la popolazione in etnie che si odiano a morte, la guerra civile, la corruzione dilagante sono tutte cose che hanno dei costi piuttosto alti.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">I soldi sono spesso andati a società americane che hanno subappaltato a società turche che hanno subappaltato a società egiziane che hanno subappaltato a società irachene per far finta di lavorare e non fare quasi niente; a compagnie di sicurezza privata (e di insicurezza pubblica), alla creazione di associazioni a delinquere travestite da partiti politici e di balordi in giacca e cravatta travestiti da personalità politiche; ad arricchire capi tribù e capi religiosi fantocci, milizie armate, formazioni militari e paramilitari nascoste, società di pseudo-intervento umanitario, affaristi, spie, banditi, criminali, trafficanti di tutto e di niente, muri di cemento armato, filo spinato, attrezzature militari... tutto tranne qualcosa di utile per il paese.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Oggi, sono tanti i paesi che hanno annunciato il congelamento dei beni dei Ben Alì (e Tarabulsi, la famiglia della moglie), dei Mubarak e dei Gheddafi. Ma dove andranno a finire questi soldi è un grande punto interrogativo. Gran parte, probabilmente, andrà nel dimenticatoio della storia e se li mangeranno le banche. Come è successo nella storia molte volte con vari conti di capi di stato, di regimi e di piccoli e grandi delinquenti comuni, morti o incarcerati. Un'altra parte sarà utilizzata da ogni paese dove sono depositate per ricattare i nuovi governi che nasceranno dalle proteste o dalle manipolazioni di esse. «Io ti do indietro i tuoi capitali alla condizione che li usi per fare “questo e quell'altro”. E te li rido indietro soltanto se “quello e quell'altro” lo fai fare alla società “Pinco” o la compagnia “Pallino...»</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Condizioni inaccettabili in una situazione normale. Condizioni che non accetterebbe che un nuovo governo corrotto quanto il primo, o forse ancora di più. Che accetterebbe, però, solo con la contro-condizione che una fetta consistente delle somme restituite vada su conti segreti intestati ai nuovi capi. Insomma, un eterno ricominciamento! È anche per questo che gli stati potenti stanno premendo con tutta la loro forza perché queste rivolte portino solo un cambiamento di burattini ma che alla fine lo spettacolo sul teatrino sia sempre lo stesso.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Per fortuna la strada sembra abbastanza cosciente di questi rischi e continua ad essere mobilitata. Ieri a Tunisi ci sono stati nuovi scontri di Piazza. Ghannouchi, il nuovo presidente-vecchio primo ministro- ha dovuto presentare le sue dimissioni. Speriamo che la stanchezza non si impadronisca dei rivoltosi prima che mandino a casa tutti i dinosauri.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><i>Nella foto: Bocassa, ex dittatore della Repubblica Centroafricana, in carica dal 1966 fino alla sua destituzione nel 1979.</i></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-57003032822907283072011-03-01T02:29:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.355-07:00Il movimento sindacale in Burundi<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh4.googleusercontent.com/-3AKo8tCqDCc/TXSzIwIIiiI/AAAAAAAABcE/OY9EwHE5eVQ/s1600/1000px-BujumburaAirport-300x225.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="150" src="https://lh4.googleusercontent.com/-3AKo8tCqDCc/TXSzIwIIiiI/AAAAAAAABcE/OY9EwHE5eVQ/s200/1000px-BujumburaAirport-300x225.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Minime africane</i></div><div style="text-align: justify;">la rubrica di <b>Daniele Mezzana</b>, con uno scritto di <b>Valeria Alfieri</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>AFRICA. </b>Ci sono tante vicende ed esperienze che, se conosciute, favorirebbero una visione molto diversa delle società africane di ieri e di oggi. E’ il caso, ad esempio, dei primi movimenti sindacali in Burundi, alla fine degli anni ‘50 dello scorso secolo. Sollecitata da un breve post di qualche tempo fa, e sulla scia di una approfondita ricerca ancora in corso, Valeria Alfieri ha gentilmente elaborato, su questo argomento, un contributo espressamente per questo blog, che riporto qua sotto, per intero. </div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">E’ un testo di grande interesse, non solo per l’argomento in sé, ma anche per le informazioni che emergono su aspetti come, ad esempio, la modernità, le classi medie, la partecipazione popolare. Valeria è dottoranda in “Studi Africani” presso la Sorbona di Parigi e l’Istituto Universitario di Napoli « L’Orientale ». Chi fosse interessato ad approfondimenti su questo scritto può contattarla qui: valeria.alfieri@hotmail.com.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>L’ “emancipazione popolare”: la CSC in Burundi</b></div><div style="text-align: justify;"><b>di Valeria Alfieri</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Gli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra sono stati percorsi dall’eco dei diritti umani e delle libertà civili e politiche, che arrivava sino agli imperi coloniali. Fu epoca di grande fioritura dei sindacati, le cui attività erano all’apice dell’attenzione internazionale e delle politiche nazionali. Gli sconvolgimenti nel continente africano alla vigilia delle indipendenze non potevano sfuggire all’accelerazione storica e all’intreccio di dinamiche ed interessi contrastanti. La parola d’ordine era emancipazione; emancipazione dal paternalismo coloniale ed emancipazione dai sistemi di poteri tradizionali. Ma si faceva sempre più strada anche la paura, quella dell’avanzata del comunismo, e della perdita d’influenza sui domini coloniali. Le conseguenze dell’una e dell’altra non avrebbero risparmiato nessun paese africano, e si sarebbero aggiunte e mescolate con le dinamiche storiche proprie delle società africane, alle prese in quegli anni con la formazione e la costruzione dei nuovi stati nazionali indipendenti.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">« La popolazione era prigioniera della paura e della sottomissione, della servitù ad un regime feudale. Tuttavia, c’erano dei fremiti, la gente ne aveva abbastanza delle corvées ai capi, delle tasse ai colonizzatori, e c’era qualcuno che cominciava ad alzare la testa. Al mio arrivo c’era stato uno sciopero degli operai della CFL, la compagnia dei trasporti, e gli educatori non diplomati del Ruanda-Urundi cominciavano a riunirsi segretamente al di fuori dei sindacati. Abbiamo allora deciso di prendere in mano la situazione» (1). E’ cosi che Jules Fafchamps, sindacalista della CSC, la Confederazione dei Sindacati Cristiano-democratici belga, arriva nelle colonie belghe dello Zaire e del Ruanda-Urundi nel 1958, per creare dei sindacati indigeni.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">All’epoca esistevano sindacati che rappresentavano i funzionari coloniali belgi, dunque creati da e per gli europei. Essi erano stati fondati nel 1948, ma « soltanto nel 1957 fu abolita la barriera del colore, bianchi e neri potevano finalmente far parte dello stesso sindacato ». Nel 1958, dunque, esistevano delle strutture sindacali, ed esistevano “neri” che avevano acquisito un certo “savoir-faire” sindacalista. Si trattava soprattutto di insegnanti ed educatori, di operai e funzionari al servizio delle imprese e delle strutture coloniali, persone che si erano affacciate alla “modernità” occidentale. La CSC nei Grandi Laghi era dunque un sindacato misto, ma la voce degli indigeni era debole: il termine uguaglianza si diffondeva tra le classi istruite, ma il sistema scolastico «trasmetteva il senso della sottomissione necessaria all’impresa coloniale. Gli indigeni avevano imparato ad essere docili». Ed il sistema coloniale, nella sua interezza, trasmetteva una ricostruzione storica dello stato-nazione burundese basata sull’esistenza di due gruppi etnici, gli hutu e i tutsi, identificati rispettivamente con i dominati e i dominanti, quelli nati per servire e quelli nati per governare. Nonostante la “propaganda” coloniale, questa “coscienza etnica” emerge tardivamente rispetto al vicino stato ruandese, e alla fine degli anni ’50 la competizione politica non era ancora stata invasa dall’etnismo, come avverrà invece all’indomani dell’indipendenza. Nell’azione sindacale di quel periodo, il dibattito ruotava intorno alla creazione di sindacati “africani”, «c’erano dei neri che volevano un bianco a capo del sindacato, e dei neri che volevano un nero». La conferenza panafricana di Accra, nel 1958, aveva lanciato l’idea di un raggruppamento sindacale panafricano; la Conferenza di Casablanca del 1961 aveva risposto a tale appello. Due posizioni venivano delineandosi, l’una facente capo al “gruppo Monrovia”, definita “realista e responsabile”, che rivendicava l’integrazione dei sindacati africani in confederazioni “straniere” e che aveva preso posizione contro il riconoscimento del governo provvisorio algerino, e l’altra facente capo al “gruppo Casablanca”, che si definiva “progressista ed anti-imperialista”, proclamava la creazione di una Confederazione sindacale panafricana e rivendicava l’integrazione dell’Algeria nei summit panafricani dei capi di governo. Il “gruppo Monrovia” riteneva prematuro che gli africani prendessero la guida di un sindacato, molti non osavano ancora opporsi apertamente al potere coloniale e a quello dei “patrons”, e consideravano di aver ancora bisogno dell’appoggio degli europei. «Il popolo aveva coscienza dell’ingiustizia e delle inegualità, ma aveva anche coscienza della sua debolezza e della violenza della repressione alla minima mancanza nei confronti delle autorità».</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Sebbene Jules Fafchamps fosse arrivato nelle colonie belghe per fondare dei sindacati “africani”, la maggioranza dei militanti sindacali si era espressa tramite un questionario a favore della linea “Monrovia”, cosi la CSC in Burundi rimase un sindacato misto.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">I sindacalisti indigeni della CSC facevano parte di una classe media emergente, che non godeva dei privilegi dei grandi chefs o di quelli che erano considerati i grandi intellettuali africani formati per guidare il paese dopo le indipendenze, e non si identificavano più con il mondo contadino che rappresentava la maggioranza della popolazione. Le masse contadine erano quelle che soffrivano di più la miseria e lo sfruttamento; tuttavia esse rappresentavano, con il loro voto, la via d’accesso al potere politico. «La sfida, allora, per la CSC era interessare questa classe media emergente, e i ricchi e gli intellettuali, alle realtà politiche, sociali ed economiche, alle condizioni di vita delle “genti semplici”». Nasce cosi l’idea di creare un sindacato per i lavoratori delle campagne e l’iniziativa di un movimento politico che potesse canalizzare gli interessi “popolari”, « un sindacato libero può esistere e vivere soltanto in un sistema democratico». Il raggiungimento di obiettivi socio-economici passava dunque per la creazione delle condizioni che potessero permettere una pressione politica. Furono cosi create diverse formazioni politiche dette “popolari”, nate sulle colline burundesi dalla trasformazione di associazioni di diverso tipo, che si unirono, nel marzo 1961, nell’UPP (Unione dei Partiti Popolari). Sebbene tali iniziative e l’ideologia che le accompagnava potessero sembrare “importate” dall’Occidente, esse furono abbracciate e sollecitate da un certo numero di militanti sindacali che volevano rompere con il vecchio regime monarchico e con la dominazione coloniale, e che diventarono ferventi repubblicani. In un Paese dominato da una cultura politica monarchica, in cui si riteneva che il re avesse origine divina, esprimere idee repubblicane era considerato un attentato alla monarchia. Un Burundi senza re era impensabile per il “popolo” burundese. L’idea repubblicana, dunque, doveva essere introdotta docilmente. Intorno a questo obiettivo si focalizzava la posizione della CSC sulla questione dell’indipendenza: tutti erano “ufficialmente” d’accordo sulla forma che avrebbe dovuto avere il Burundi indipendente, quella di una monarchia costituzionale, ma i contrasti nascevano intorno ai tempi dell’indipendenza. L’UPP era contrario all’indipendenza immediata, l’idea era che la classe dirigente burundese dell’epoca era composta dalla vecchia classe feudale, che il numero d’intellettuali capaci di guidare il paese era esiguo, e che bisognava anzitutto “formare nuovi uomini politici”, garantendo un accesso all’istruzione uguale per tutte le etnie (2). Sebbene tale convinzione non corrispondesse completamente alla realtà locale, essa rispecchiava la maturità e l’ideologia politica dei militanti dell’ UPP, sindacalisti e non.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Il partito non ottenne la maggioranza alle elezioni legislative del 1961, ma ottenne dei seggi in parlamento. Fu il partito UPRONA ad avere la meglio, e la sua ascesa politica sancì la vittoria della corrente “Casablanca”, dunque: indipendenza immediata sotto la forma di una monarchia costituzionale.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Tuttavia l’influenza dell’UPP cresceva velocemente, e i suoi obiettivi politici minacciavano l’esistenza della classe dirigente di formazione coloniale, già divisa e in competizione per il potere politico. L’azione del sindacato “popolare” andava avanti, così come cominciava a prendere forma una “questione etnica”, a causa soprattutto dell’influenza della rivoluzione sociale in Ruanda e l’afflusso di migliaia di rifugiati tutsi in Burundi, anche se per il momento le divisioni etniche non condizionavano le adesioni dei militanti.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Nel gennaio 1961 la CSC organizza una missione a cui presero parte 10 militanti sindacali del Ruanda e del Burundi; quasi tutti facevano parte di partiti politici. Si trattava di visitare delle opere di sviluppo agricolo e seguire attività di formazione in Belgio, Francia ed Israele, finalizzate alla creazione di cooperative agricole e alla nascita di un Movimento rurale. L’obiettivo era l’emancipazione rurale e la creazione di un movimento nazionale. Bisognava schiudere le identità ed i raggruppamenti collinari e di quartiere, a favore di un movimento più vasto di concertazione e coscientizzazione contadina; bisogna interessare la borghesia ai problemi rurali e interessare le masse contadine alle questioni politiche. La lotta era contro la monarchia, contro i “signori feudali”, e contro i comunisti; era per la repubblica, la democrazia, e uno stato social-democratico. Si pensava, infatti, che il principale partito d’opposizione all’UPP, l’UPRONA, potesse ben presto diventare un vero e proprio satellite comunista: si vociferava dei contatti che alcuni leaders di questo partito nutrivano con il partito comunista cinese. Interessi locali e internazionali erano dunque mescolati; alle manipolazioni esterne si aggiungevano dinamiche evolutive interne di matrice sia socio-economica che politica. Al tempo stesso, le competizioni interne per la leadership, le lotte d’influenza, non mancarono di lasciare il loro marchio sull’evoluzione del sindacato e del movimento politico.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Poco tempo dopo il ritorno della delegazione in Burundi, e all’indomani dell’assassinio del leader dell’UPRONA, Louis Rwagasore, un gruppo di estremisti della JRR (Jeunesse Revolutionnaire Rwagasore) massacrarono a morte, nel gennaio 1962, alcuni sindacalisti membri dell’UPP. Il massacro avvenne in pieno giorno, fu una vera e propria caccia all’uomo. Le vittime note erano tutte di etnia hutu, ma da qualche testimonianza è emerso che massacri e arresti arbitrari si fossero susseguiti anche in altre province del paese e che, probabilmente, tra le vittime ci fossero stati militanti di etnia tutsi. Ad ogni modo, questo episodio, noto come “incidente di Kamenge” è considerato da molti burundesi, e da alcuni esperti della regione, come la miccia che ha acceso l’antagonismo etnico e che ha provocato l’etnicizzazione della vita politica. In realtà, l’azione dei sindacalisti e il loro assassinio sembrano essere più la conseguenza di un tentativo di politicizzazione e di “emancipazione popolare”, e dunque della competizione per il potere, che spaventava i dirigenti dell’epoca, che non l’espressione di una lotta etnica. L’appoggio del partito comunista cinese ai giovani della JRR inoltre, non è da sottovalutare. In più si trattava di uomini politici che riuscivano con sempre più difficoltà a nascondere la loro orientazione politica repubblicana, contro un UPRONA monarchico. Non è un caso che l’incidente di Kamenge sia avvenuto poco tempo dopo l’assassinio di Rwagasore, che oltre ad essere il leader dell’UPRONA era anche e soprattutto figlio del Re Mwambutsa. I privilegi monarchici, e l’orientamento “progressista e rivoluzionario” mal si conciliavano con gli ideali ed i valori di sindacalisti cristiano-democratici e militanti repubblicani.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Il timore suscitato dalla possibile ascesa dell’UPP, e dalla politicizzazione della popolazione rurale, era reale, e si sarebbe manifestato con forza in occasione delle elezioni legislative del 1965. Negli archivi burundesi è possibile reperire lettere e comunicati facenti riferimento alla necessità di “depoliticizzare le masse”, disinteressarle alla politica, assorbendole nel lavoro dei campi. Il duro lavoro nei campi viene eretto a valore di ogni vero uomo, un vero uomo deve poter pagare le tasse, la politica distoglieva da tutto ciò. E il lavoro nei campi doveva essere soprattutto quello volto allo sviluppo delle esportazioni.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Nonostante il fatto che i quadri dirigenti del partito fosse stati eliminati nel 1962, il PP (Partito Popolare), la formazione più influente dell’UPP, riportò 10 seggi contro i 21 dell’UPRONA. E un’ala dell’UPRONA si era nettamente schierata a favore dell’ideologia del PP. Praticamente i “fedeli” del PP erano maggioritari in Parlamento. Il movimento aveva continuato la sua azione politica e sindacale a partire dal 1962 con discrezione, e disponeva dunque di un numero crescente di militanti. Era ben lontano, allora, dall’essere un partito esportato o di facciata, ma aveva una presa reale nel Paese. La sua ascesa colse tutti di sorpresa, e l’anno 1965, con il tentativo di colpo di stato contro la monarchia, l’esecuzione e l’assassinio di numerosi leaders d’etnia hutu, la ribellione repressa nel sangue nella provincia di Muramvya, segnano la fine della breve ma innegabile esperienza democratica della società burundese.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Gli eventi che seguirono furono tragici e sanguinosi, provocarono migliaia di morti e milioni di rifugiati e sfollati, ma le attuali evoluzioni socio-politiche in questo piccolo Paese mostrano tutta la forza di una maturità politica spesso sottovalutata dagli osservatori internazionali.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>Valeria Alfieri</b></div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">NOTE</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><i>1 Intervista a Jules Fafchamps, sindacalista della CSC, maggio 2009 e febbraio 2010. Fu tra i primi sindacalisti a recarsi nei territori del Congo belga e del Ruanda-Urundi per fondare dei sindacati africani. Tutte le espressioni riportate tra virgolette in questo testo, sono tratte da interviste da lui rilasciate in tempi diversi.</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>2 Il sistema coloniale aveva, effettivamente, facilitato l’accesso all’istruzione ed alle più alte cariche amministrative di esponenti dell’etnia tutsi. Sebbene le divisioni etniche non rappresentassero ancora una “questione” per i burundesi, i membri dell’UPP furono tuttavia tra i primi a sollevare e indicare l’esistenza di discriminazioni, spinti probabilmente dall’influenza dei sindacalisti belgi e di quelli ruandesi che avrebbero dato vita, in Ruanda, al Parmehutu, e da cui uscirono leaders come Kayibanda. Tuttavia all’epoca le adesioni tanto al sindacato che all’UPP non erano influenzate dall’etnia, la “questione etnica” emerse tardivamente rispetto al vicino Ruanda.</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br />
</i></div><div style="text-align: justify;"><i>La foto è tratta da: www.skyscrapercity.com</i></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-7771092538850779372011-03-01T00:03:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.388-07:00Bologna, attivisti al Cie: “Occupazione simbolica per il primo marzo”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh5.googleusercontent.com/-amSBfS0ff80/TW0C0MtX3zI/AAAAAAAABbw/35As8v92sak/s1600/4398952741_6e21ae1ddf.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="200" src="https://lh5.googleusercontent.com/-amSBfS0ff80/TW0C0MtX3zI/AAAAAAAABbw/35As8v92sak/s200/4398952741_6e21ae1ddf.jpg" width="133" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Nella giornata in cui i migranti incrociano le braccia per lo sciopero “24 ore senza di noi”, un centinaio di persone dei centri sociali sono entrate nel Cie scavalcando il muro</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Erica Ferrari</b>, Redattore Sociale</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><br />
<div style="text-align: justify;"><b>BOLOGNA. </b>Un centinaio di persone (attivisti dei centri sociali) sono entrati questa mattina intorno alle 10 al Centro di identificazione e di espulsione (Cie) di via Mattei, scavalcando il muro di cinta posteriore della struttura vicino alla stazione Roveri. Sono entrati con striscioni e fumogeni. “È un’occupazione simbolica – racconta una ragazza – visto che oggi è il primo marzo”. L’occupazione del Cie si inserisce nelle iniziative organizzate per la “Giornata senza di noi”.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Oggi, infatti, è la giornata dello sciopero dei migranti organizzato dal Comitato Primo Marzo. E in piazza Maggiore sta prendendo forma la mobilitazione degli stranieri che per 24 ore incroceranno le braccia contro la Bossi-Fini e il Pacchetto Sicurezza e contro il permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro. Gli organizzatori dello sciopero si aspettano di superare i numeri del primo sciopero dei migranti avvenuto lo scorso anno, quando in piazza sono scese 15 mila persone.</div><br />
<div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;"><b>LA POLEMICA.</b> È necessario aprire una discussione sulla problematica dei Centri di identificazione e di espulsione. È quanto dicono i manifestanti che questa mattina hanno fatto irruzione nel Cie di via Mattei a Bologna in solidarietà con gli immigrati che si trovano al suo interno. “Invece di attuare politiche di accoglienza – dice un portavoce – si continuano a costruire nuovi lager”.</div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">I manifestanti stanno cercando di entrare in contatto con gli immigrati battendo contro l’inferriata interna del centro. Ma le persone all’interno della struttura sono state allontanate dalle forze dell’ordine. Sul posto sono arrivati nel frattempo giornalisti, avvocati e politici tra cui la consigliera regionale dei Verdi Gabriella Mei e il consigliere regionale della Federazione della sinistra Roberto Sconciaforni. La situazione al Cie per ora è di stallo. I manifestanti stanno attendendo una risposta alla richiesta di poter entrare con una delegazione all’interno della struttura per poter verificare le condizioni degli immigrati. </div><div style="text-align: justify;"><br />
</div><div style="text-align: justify;">Un centinaio di persone, tra attivisti dei centri sociali di Bologna, Rimini, Reggio Emilia, Parma, Padova, Ancona, Mestre e Venezia, hanno scavalcato questa mattina intorno alle 11 il muro di cinta esterno sul retro del Cie (dal lato della ferrovia dove c’è la stazione Roveri). Attualmente si trovano nel “primo anello” all’esterno dell’inferriata interna. C’è stato qualche tafferuglio con le forze dell’ordine ma per ora non si registrano feriti. Nel corso dell’azione è stata aperto un cancello che è stato bloccato con un blindato dell’esercito.</div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-70342815312755672082011-02-28T23:39:00.001-08:002012-08-21T09:01:48.378-07:00Marocco, “Giornalisti stranieri nel mirino perché non raccontino cosa sta accadendo”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://lh5.googleusercontent.com/-J3PpAyvMPBM/TWpyirecJzI/AAAAAAAABbc/W63frZoyzKM/s1600/ProtesteMarocco-300x225.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;"><img border="0" height="150" src="https://lh5.googleusercontent.com/-J3PpAyvMPBM/TWpyirecJzI/AAAAAAAABbc/W63frZoyzKM/s200/ProtesteMarocco-300x225.jpg" width="200" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i>Il blogger italiano Jacopo Granci, fermato dalla polizia il 19 febbraio. Seguiva sul suo blog la mobilitazione dei giovani che chiedono un cambio di regime ma è stato arrestato alla vigilia della manifestazione del 20 febbraio</i></div><div style="text-align: justify;">di <b>Alberto Tetta</b>, Redattore Sociale</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><br /><div style="text-align: justify;"><b>RABAT</b>. “Abito a Rabat, ma mi trovavo a Casablanca per seguire il Festival del libro, la sera del 19 febbraio, sotto la porta di casa del giornalista Aziz al-Yakoubi, io e il mio amico Riccardo Fanò siamo stati fermati e portati in questura dalla polizia senza che ci venisse spiegato di cosa eravamo accusati”.</div><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Racconta così il momento del suo arresto Jacopo Granci, 27 anni, collaboratore del settimanale “Carta” e blogger. Originario di Città di Castello, vive stabilmente in Marocco dal settembre 2009 dove, oltre a scrivere articoli, studia il movimento berbero, tema della sua tesi di dottorato. “Ho aperto il mio blog –spiega Granci – per raccontare quello che succede in Marocco, sono in contatto con giornalisti indipendenti, attivisti per i diritti umani, militanti dei movimenti di opposizione e in queste ultime settimane mi sono occupato delle manifestazioni che stanno attraversando il Marocco”.</div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Potrebbe essere stato proprio il suo interesse per le mobilitazioni di questi giorni a irritare le autorità marocchine. “Dopo il nostro arresto, sabato intorno a mezzanotte siamo stati portati al commissariato di polizia di Anfa a Casablanca – racconta – Lì siamo stati interrogati fino alla mattina dopo. Ci hanno chiesto chi avevamo intervistato, chi erano i nostri amici. I poliziotti ci hanno mostrato foto di persone chiedendoci se le conoscevamo. Poi il commissario ci ha detto che saremmo stati espulsi”. Nel frattempo, però, fuori dal commissariato gli amici dei due ragazzi si erano attivati per mettersi in contatto con loro e chiederne la liberazione. “Alle otto di mattina ci sono stati riconsegnati i passaporti – racconta Granci – e siamo stati liberati grazie all’intervento della rappresentanza dell’Unione europea che ha fatto pressioni sul ministero degli Interni marocchino per il nostro rilascio”. Le autorità marocchine stanno cercando di impedire ai giornalisti internazionali di raccontare quanto sta accadendo in questi giorni: “Mentre entravamo in commissariato dopo il nostro arresto due giornalisti stranieri uscivano dalla stazione di polizia scortati dalle forze dell’ordine, probabilmente sono stati espulsi”. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Proseguono intanto gli scontri tra studenti e polizia. Ieri un 21enne, ferito negli scontri dei giorni scorsi è morto all’ospedale di Safrou, cittadina a 20 chilometri da Fez. Oggi, giorno dei suoi funerali, è stato ribattezzato “Friday of Freedom of Morocco”. Come racconta Mohamed, uno degli organizzatori della mobilitazione del 20 febbraio, “ci sono forze armate dappertutto e stanno cercando di impedirci di tornare a manifestare”. Sarebbero 6 gli attivisti della National Union of Students of Morocco arrestati ieri a Marrakech, tra cui Mohamed Laarbi Jaddi e Abdalahak Attalhawi, e 10 quelli della stessa organizzazioni arrestati ieri a Fez.</div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-1016384254827387488.post-77418975872306733652011-02-28T23:39:00.000-08:002012-08-21T09:01:48.385-07:00I diavoli di via Padova, cronaca di un inferno annunciato<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TBNL8i8NmAI/AAAAAAAAAeg/ogG6E6wEvFg/s1600/135.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" qu="true" src="http://1.bp.blogspot.com/_WKxQVyRoQl8/TBNL8i8NmAI/AAAAAAAAAeg/ogG6E6wEvFg/s200/135.jpg" width="131" /></a></div><div style="text-align: justify;"><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">“Forse devo abituarmi ad essere di nuovo in una comunità nella quale però non sono entrato io, è lei che in un decennio si è annidata intorno a me”</span></i><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">. I diavoli di via Padova. Di Matteo Sperone. 12 Euro, 157 pag, Cooper Editore.</span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Di <b>Luigi Riccio</b></span><br /><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;"><br /></span><br /><b><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">RECENSIONI. </span></b><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Via dei Transiti, angolo via Padova, Milano. E’ da queste strade che inizia e finisce il racconto di questo libro; uno spaccato di un’Italia diversa dove i reietti non sono i napoletani di Scampia o i palermitani di Brancaccio, bensì gente proveniente da ogni angolo di mondo; ognuno con le proprie storie, le proprie fughe, le speranze che li hanno spinti a cambiare vita. </span><br /><a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Ecuador, Egitto, Cina, Romania, Marocco, Tunisia, Argentina. Tutti insieme appassionatamente, verrebbe da dire. Ma la convivenza non è facile neanche tra gli immigrati stessi, e si creano piuttosto tanti piccoli ghetti racchiusi in un ghetto più grande, in questo caso la via Padova. </span><br /><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times, 'Times New Roman', serif;">Tes, la voce narrante, è proprio qui che vive: in via dei Transiti, che con via Pasteur e via Temperanza forma il “negrodromo”. Conosce bene la zona, lui; l’ ha vista passare da zona di tranvieri a meta dei migranti meridionali, passando per le turbolenze degli anni ’70– il Leoncavallo, l’Autonomia, il Casoretto – e finendo poi nel piccolo villaggio globale in miniatura che è oggi. Si adatta Tes. Ma neanche può fare altrimenti: di andare via, di raggiungere anche solo la piazza Loreto che è lì a due passi, non ne ha per niente voglia. Passa le sue giornate tra i vari bar sotto casa; birra e Kebab a colazione, chiacchierata con l’agente immobiliare Adri che si ubriaca tra una pausa e l’altra, con qualche conoscente spacciatore, con i gestori dei locali, con la cassiera del supermercato di fronte. Le sirene della polizia sono una costante; vuoi per qualche retata anticlandestino vuoi per qualche rissa in cui, quando ci scappa il morto, è sempre seguita da una rivolta. Tes è depresso. Ogni suo desiderio è bloccato dalla paura di impazzire di nuovo, di ritrovarsi in una clinica con le allucinazioni di un tempo. Smuoverlo è difficile. E intanto il fiume Padova scorre. Con la sua violenza, i suoi colori. Con i suoi accenti, le sue lingue diverse in ogni locale. Lui è lì ad osservare, niente rifugge dal suo sguardo. Fino a quando qualcosa di inaspettato giunge finalmente a dargli una scossa.</span></div>L.M.http://www.blogger.com/profile/16517098955543171021noreply@blogger.com